Mari, porti e capitalismo: una rotta cinematografica

L’economia marittima è la faccia occulta dell’odierno sistema capitalistico, fatta non di comunicazioni istantanee e di prodotti immateriali, ma di lenta navigazione e materialità. Un modo affascinante che il cinema ha esplorato con diverse importanti opere. Qui ripercorriamo alcune sue rotte filmiche, da Los Angeles a Genova, dalla Scozia al Giappone, lungo mari e porti da sempre globalizzati.

Uno dei luoghi comuni dell’ideologia capitalista dominante è che la struttura portante dell’economia contemporanea sia fatta essenzialmente di reti virtuali, di comunicazioni istantanee, di flussi finanziari immateriali, di impalpabili prodotti digitali. In realtà, questa economia immateriale rappresenta solo un lato della medaglia del capitalismo odierno, e un lato che dipende pressoché per intero dall’altro verso della medaglia, fatto di forza lavoro manuale, di produzione industriale materiale e di comunicazioni lente. Il locus oggi forse più occulto di questa “realtà parallela” è il sistema mondiale del commercio marittimo, fatto di trasporti lenti e nel quale domina incontrastato un oggetto dall’aspetto anonimo e a bassa tecnologia come il container. Oggi il 90% del commercio mondiale passa attraverso questo sistema altamente organizzato, fatto di navi cargo mastodontiche che percorrono lentamente le rotte marittime, di equipaggi costituiti da lavoratori precari e ipersfruttati, di grandi porti robotizzati che hanno quasi completamente estromesso la figura del docker e di città portuali in declino gentrificate dalla speculazione edilizia. E’ questo sistema lontano dai riflettori dei media e dalle riflessioni politiche che ha consentito le grandi delocalizzazioni industriali degli ultimi decenni e la flessibilità nella fabbricazione e commercializzazione dei prodotti di consumo. Senza il sistema del commercio marittimo, l’accumulazione di capitale su cui si basa la cosiddetta “economia immateriale” non sarebbe possibile. E senza il trasporto containerizzato di chip, smartphone, computer, cavi e così via, le comunicazioni digitali in tempo reale così come le conosciamo oggi non potrebbero esistere. Nel nostro articolo navigheremo in questo “spazio dimenticato” lungo una rotta segnata da alcuni film che, direttamente o indirettamente, affrontano i temi del commercio marittimo, della pesca e della città portuale mettendone in evidenza gli aspetti politici e sociali.

“The Forgotten Space”: lo spazio dimenticato del capitalismo globale

L’opera con la quale cominciamo il nostro viaggio è quella che mette in gioco in modo più esplicito ed esaustivo questi temi, “The Forgotten Space” (2010), cioè “lo spazio dimenticato”, un documentario diretto a due mani da Allan Sekula e dallo studioso francese Noël Burch, ma che in realtà costituisce il culmine del lungo lavoro multimediale del primo. Lo statunitense Allan Sekula (1951-2013) è stato uno degli intellettuali più straordinari dell’ultimo mezzo secolo. Conosciuto soprattutto come fotografo, è stato in realtà con pari impegno anche teorico, scrittore e regista. Sekula inoltre è stato un marxista non dogmatico e ha svolto attività militante in coerenza con la sua opera intellettuale. Il suo lavoro creativo, in controtendenza con i tempi in cui ha vissuto, si basa su un approccio realista critico nel quale il realismo nasce direttamente da dentro la realtà e non rappresentandola dall’esterno. Tra le tecniche che ha applicato più di frequente vi sono quella della messa in sequenza di immagini fotografiche e quella dell’accostamento di oggetti disposti nello spazio, di immagini e testi, di filmati di realtà geograficamente distanti tra di loro. Sekula è stato, soprattutto nella seconda parte della sua carriera, un artista prettamente multimediale, ma senza il glamour tecnologico al quale questo termine viene di norma associato. Tra le sue opere più interessanti della sua prima fase vi è “This ain’t China” un “fotoromanzo concettuale” del 1974 sulle condizioni di lavoro precario nei fast-food, un tema di cui allora pressoché nessuno si occupava e che oggi è di estrema attualità. A partire dagli anni ’90 il lavoro di Sekula si è concentrato sempre più sul tema del mare, e in particolare del commercio marittimo globale, dei marinai e dei lavoratori portuali. Uno dei suoi progetti, “The Dockers’ Museum” (2010-2013), consiste in un’esposizione di fotografie e oggetti vari collegati in qualche modo alla vita dei lavoratori marittimi: cartoline postali, piccole sculture, giocattoli e altro ancora. Questo progetto si ricollega direttamente alle altre sue opere sullo spazio marittimo mondiale, diventato con il tempo il tema centrale del suo lavoro, come per esempio nel documentario di oltre tre ore “The Lottery of the Sea” (2006), di cui è disponibile in rete un estratto di circa mezz’ora. Il documentario “The Forgotten Space” è un’opera che va a complementare un suo progetto di lunga data e più ampio, “Fish Story” (1989-1995), il cui precedente capitolo era stato un libro di fotografie e di denso testo che rappresenta forse il momento più alto di un’opera che, comunque, ha la sua ragione d’essere nel suo più vasto dispiegarsi in varie forme nel corso dell’intera vita di Sekula. “Fish Story” è stato recentemente ripubblicato come e-book a un prezzo quasi “proletario” e ne consigliamo vivamente la lettura.

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L’invenzione del container negli anni ’50 del secolo scorso e la sua diffusione massiccia tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70 hanno inciso altrettanto, se non addirittura più, di Internet e della telefonia mobile sull’evolversi dell’economia mondiale e, di riflesso, sulla vita quotidiana di tutti noi. Si tratta di una storia affascinante, raccontata in modo accessibile e avvincente in un libro di Marc Levinson, “The Box. How the Shipping Container Made the World Smaller and The World Economy Bigger” (2006). Levinson illustra come l’impiego del container da parte degli Usa nell’ambito del supporto logistico alla Guerra del Vietnam ne abbia sancito il successo e quindi la diffusione nel mondo intero, facendone uno standard imprescindibile. Questo banale parallelepipedo metallico, rimasto praticamente identico a se stesso dopo la sua invenzione più di mezzo secolo fa e privo di ogni elemento ad alta tecnologia, ha reso possibile una completa fluidità del trasporto intermodale. La sua introduzione a livello mondiale ha trasformato radicalmente tutto ciò a cui era connesso direttamente o indirettamente in ambito economico: produzione, trasporto, commercializzazione. Grazie alla sua forma standardizzata ha enormemente semplificato le operazioni di carico e scarico, diminuendone i costi e consentendo tra le altre cose di ridurre a una forza insignificante la categoria dei lavoratori portuali, una delle più combattive e meglio organizzate, forte in particolare della capacità, essenziale per le lotte contemporanee, di stabilire collegamenti e agire su un piano mondiale.  Il container ha inoltre consentito di massimizzare l’uso dello spazio di carico delle navi e di quello di scarico dei porti e, soprattutto, di rendere possibile una continuità fluida tra il trasporto via mare e quello via strada o ferrovia grazie alla sua forma standardizzata. In virtù di queste caratteristiche ha reso possibile una rapida e completa delocalizzazione delle produzioni, consentendo di fabbricare in paesi diversi pezzi singoli da assemblare poi in articoli completi e di rendere disponibili in tempi brevi in ogni punto del globo prodotti diversificati a prezzo contenuto. Per citare solo un esempio, senza la sua invenzione l’odierno ruolo di “fabbrica del mondo” svolto dalla Cina sarebbe impensabile. Infine, la logistica containerizzata ha reso possibile l’abbandono dei vecchi porti situati in centri urbani concentrando il traffico su nuovi megaporti in aree periferiche (per es. Rotterdam), con la conseguenza che sono state rese disponibili alla gentrificazione e alla speculazione edilizia (estromettendone una popolazione proletaria) immense aree di valore in migliaia di città di tutto il mondo.

Non è quindi un caso che sia l’immagine ricorrente della prua di un’enorme nave cargo stracolma di container che solca l’oceano a fare da filo conduttore di “The Forgotten Space”, definito dai suoi stessi titoli di testa un “film essay”, un saggio filmico in cui la parola del testo letto in voce over si intreccia profondamente con le immagini dando vita a un ritratto a mosaico, ma globale, del sistema dell’economia marittima e del suo ruolo centrale nel capitalismo moderno. Il container, la “scatola che rende la merce anonima, segreta, priva d’odori, astratta”, come recita la voce over, è il fulcro di questo sistema. Il film prende le mosse dall’Olanda, e in particolare dal megaporto di Rotterdam ormai quasi completamente automatizzato nelle operazioni di carico e scarico ed emigrato al di fuori dei confini della città. Ma nel sistema dell’economia dei trasporti un porto non è mai una struttura isolata e incide fortemente sull’entroterra. Qui ci viene mostrato come la ferrovia-bunker che parte dal porto e lungo la quale viaggiano principalmente prodotti tossici pericolosi abbia sconvolto la topografia delle aree rurali circostanti, causando vaste proteste. Questa infrastruttura però, una volta messa in uso, si è rivelata sottoutilizzata, motivo per cui il governo ha deciso di creare una nuova area industriale al solo fine di giustificarne l’esistenza. “The Forgotten Space” è un viaggio filmico non lineare, che applicando il metodo del realismo critico di Sekula mette l’una accanto all’altra situazioni diverse generando così un quadro globale che mette in risalto sia le contraddizioni sia i nessi altrimenti occulti del sistema capitalistico mondiale. La voce over svolge la funzione fondamentale di collante di questo mosaico. Il caso del porto di Long Beach/Los Angeles, per citare un esempio, mette in luce le contraddizioni della paranoia securitaria: mentre gli accessi agli Stati Uniti con altri mezzi vengono capillarmente controllati, solo il 2% dei milioni di container che giornalmente arrivano a Long Beach è oggetto di ispezioni. L’area del porto californiano è un microcosmo emblematico, dove un cimitero pieno di tombe di marinai italiani, dalmati e latinoamericani immigrati all’inizio del secolo si trova a poca distanza da un terminal presso il quale nuovi immigrati latinoamericani lavorano come camionisti a cottimo sottopagati e sono vittime di continui incidenti sul lavoro, mentre più in là tende di disoccupati senzatetto bianchi e neri occupano abusivamente uno spazio vuoto tra due linee ferroviarie private in reciproca concorrenza. Spostandosi ancora, la cinepresa scopre lungo i binari una fila infinita di locomotrici ferme, inattive per la crisi e che “attendono un nuovo gonfiarsi della bolla economica”. Il film viaggia in contesti lontani tra di loro, ma uniti dalla rete mondiale del sistema dell’economia marittima: dal Golfo Persico solcato da petroliere inquinanti e navi di seconda mano che trasportano armamenti Usa, fino a Shenzhen, la megametropoli industriale cinese dove gli operai lavorano 14-15 ore al giorno e nel pochissimo tempo libero di cui dispongono visitano “Windows of the World”, un mondo in miniatura che dà loro l’illusione di visitare luoghi lontani, e poi fino a Bilbao, nei Paesi Baschi, dove il Museo Guggenheim, costruito nell’area del vecchio porto con titanio di seconda mano comprato a prezzi di svendita presso industrie aerospaziali russe in crisi, ha reso la città un tempo economicamente attiva simile a “un negozio di antiquariato”. Sekula e Burch hanno realizzato il loro film in parte anche viaggiando su cargo della compagnia navale coreana Hanjin, un colosso mondiale dei trasporti marittimi che nel frattempo, nel 2016, è fallita sotto il peso della crisi economica. “The Forgotten Space” dedica una particolare attenzione alla vita dei lavoratori del mare, una categoria che è diventata un “pioniere” del lavoro precario dopo che, all’indomani della Seconda guerra mondiale, si è diffusa in tutto il mondo la pratica delle “bandiere ombra” panamensi o liberiane, che consentono ai capitalisti del mare di sfruttarli senza limiti e di non rispettare le norme di sicurezza risparmiando così costi. Uno dei momenti più commoventi del film è quello in cui ci viene mostrato l’incontro tra le domestiche e badanti filippine ipersfruttate che nelle domeniche libere si riuniscono a migliaia a Hong Kong negli spazi vuoti tra i grattacieli delle banche per conversare e ballare, e i marinai loro connazionali in visita in città durante una giornata libera prima di ripartire per altri mesi di lavoro ininterrotto su una nuova nave: un attimo di gioia e di solidarietà. “The Forgotten Space” in chiusura torna in Olanda, nella desolata cittadina di Doel, i cui abitanti vengono deportati per fare posto a un ampliamento del porto di Rotterdam. Si chiude così un saggio filmico che apporta un contributo fondamentale alla comprensione del capitalismo odierno, come d’altronde fa l’intera opera di Sekula, di cui rappresenta l’ultima, preziosa tessera.

“The Salvation Hunters”: il porto come luogo di maturazione della rivolta

Allan Sekula ha vissuto la propria infanzia e adolescenza a San Pedro, cioè quello che era il vecchio porto di Los Angeles prima del trasferimento delle attività portuali a Long Beach. San Pedro nel panorama mondiale d’anteguerra rappresentava una singolare eccezione, poiché si trovava distante dalla città di riferimento, Los Angeles, invece che al suo centro come altrove. Negli ultimi decenni, come abbiamo già menzionato, il modello allora unico di San Pedro è invece diventato dominante a livello mondiale: ovunque i porti si sono spostati o si stanno spostando ai margini delle città, dove i loro snodi di trasporto intermodale hanno più spazio per espandersi a costi contenuti. In “The Forgotten Space” Sekula & Burch citano alcuni film riservando, non a caso, un’attenzione particolare a una pellicola muta del 1924, “The Salvation Hunters” (trad. letterale italiana “I cacciatori di salvezza”), l’opera prima del regista Josef von Sternberg, che sarebbe poi diventato una delle figure di punta del cinema hollywoodiano degli anni ’30 del secolo scorso, grazie in particolare ai suoi film interpretati da Marlene Dietrich come “L’angelo azzurro”, “Marocco”, “Venere bionda” e “Shanghai Express”. La prima parte  di “The Salvation Hunters” è interamente ambientata proprio nel porto di San Pedro. Si tratta di una produzione indipendente (caso più unico che raro nella Hollywood di allora) realizzata a basso costo dallo stesso Sternberg insieme all’attore George K. Arthur con un capitale di 5.000 dollari di allora, pari a circa 50.000 dollari odierni. Von Sternberg era un autodidatta, emigrato ancora bambino da Vienna a New York con la famiglia impoverita, non aveva mai seguito studi regolari ed era entrato nel mondo del cinema lavorando come riparatore di pellicole, arrivando infine alla posizione di aiuto-regista dopo una lunga gavetta. L’ambizione che lo ha portato a rischiare il proprio intero patrimonio nella produzione di “The Salvation Hunters” è stata premiata: il film ha entusiasmato Charlie Chaplin, al quale era riuscito fortunosamente a farne avere una copia, ed è stato distribuito dalla United Artists con il sostegno promozionale di due star del calibro di Douglas Fairbanks e Mary Pickford. Ma von Sternberg ha poi dovuto attendere ancora alcuni anni per arrivare al pieno successo nel mondo del cinema mainstream con il film “Le notti di Chicago” (“Underworld”) del 1927.

Salvation Hunters

“The Salvation Hunters” è un film all’avanguardia rispetto ai tempi per le soluzioni estetiche che adotta e per le sue ambientazioni. La trama è scarna. Un ragazzo, una ragazza e un bambino orfano si incontrano casualmente nel porto di San Pedro, sono tutti squattrinati e depressi dall’atmosfera fangosa del suo bacino. Decidono di andare in città (Los Angeles) per cercare lavoro, ma non lo trovano e fanno la fame. Un ruffiano offre loro un alloggio gratuito, con l’intenzione di portare la ragazza alla prostituzione. La ragazza però recalcitra e il ruffiano decide allora di portare tutti con la sua auto in gita fuori città con l’intenzione di sedurre la ragazza e forzarla così alla prostituzione. Ma una volta in campagna la ragazza oppone resistenza alle avance dell’uomo, il bambino e il ragazzo vengono in suo aiuto e il ruffiano si prende una bella lezione. I tre ora hanno preso coscienza della propria forza collettiva e si avviano fiduciosi verso il futuro. Alcune scelte di von Sternberg, come quella di girare quasi per intero il film in esterni del tutto realistici, di assegnare agli attori nomi generici (“la ragazza”, “il ragazzo”, “il bambino” ecc.) e di guidarli a una recitazione sobria, dai toni sommessi, danno al film una dimensione universale e particolarmente coinvolgente. Uno dei principali protagonisti però non è un essere umano: la draga che scava inesorabilmente fango, sullo sfondo o in primo piano, durante l’intera prima parte girata nel porto di San Pedro, la stessa draga che, spiega un intertitolo, ha ucciso per un incidente i genitori del bambino, lasciandolo orfano. Von Sternberg ha affermato che la sua intenzione era quella di realizzare una “combinazione di poesia visiva e realismo documentario”, e ci è riuscito alla perfezione. Le immagini di apertura fatte di relitti, figure riflesse nell’acqua, spazi angusti creano un’atmosfera di desolazione, ma allo stesso tempo di grande bellezza che mette in evidenza il potenziale di liberazione esistente anche nella situazione più opprimente. I testi degli intertitoli solo raramente hanno la funzione di evidenziare dialoghi o spiegare snodi narrativi, e sono nella loro essenza di carattere poetico. I protagonisti, negli intertitoli, sono “esseri umani che strisciano vicino alla terra – dalle vite semplici – che non cominciano da nessuna parte e non finiscono da nessuna parte”. L’entrata in scena della ragazza è accompagnata dall’intertitolo “la draga la aveva prelevata insieme ad altro fango… la sua anima incrostata di disprezzo per la vita”. Il porto è un luogo in cui la macchina (cioè la draga in continuo funzionamento) domina lavorando incessantemente, mentre i protagonisti sono in condizioni di disoccupazione forzata. Ma è anche un luogo di solidarietà in cui la ragazza, il ragazzo e il bambino si incontrano e subito uniscono la loro disperazione per trasformarla in forza, dando vita a una sorta di famiglia non tradizionale, senza vincoli di matrimonio o di sangue. C’è attenzione anche per i particolari realistici: un manifesto sindacale in giapponese nel porto ci ricorda il ruolo fondamentale che i migranti svolgono nell’economia marittima, le scene dell’inutile ricerca di lavoro in città sono girate dal vivo in agenzie di collocamento reali affollate di disoccupati reali, così come sono reali i mendicanti e i senzatetto che la popolano (visti anche i drastici limiti di budget, von Sternberg ha girato pressoché l’intero film in set reali – l’unico set artificiale è quello dell’appartamento in cui vivono i tre, preso in prestito a prezzo stracciato da von Sternberg presso uno studio cinematografico). Le scene finali della gita fuori città si svolgono in un’area destinata a essere edificata dagli speculatori e popolata da insegne di agenzie immobiliari, tra le quali risalta in particolare quella che grida “Qui i vostri sogni diventeranno realtà”. Ma il sogno che diventerà realtà per i tre protagonisti sarà ben diverso: l’avere preso coscienza di sé, della forza insita nella solidarietà e del valore universale che tale forza ha. Gli intertitoli che accompagnano le scene conclusive mentre i tre si incamminano verso il futuro sono eloquenti: “Hanno combattuto e vinto una grande battaglia – contro se stessi (la propria codardia). Non sono le circostanze, né il contesto [a decidere] — è la fede in noi stessi a decidere delle nostre vite! E come loro tre anche tutti noi possiamo affrontare il futuro senza timori!”. Gli elementi realistici del film sono del tutto controcorrente per i ruggenti anni ’20 della enorme bolla economica, che sarebbe sfociata solo cinque anni dopo nella Grande depressione, e mettono a nudo il sistema di sfruttamento e oppressione sul quale si basava. “The Salvation Hunters” ha quindi tra le altre cose anche un forte messaggio politico. E’ la storia di tre persone oppresse, messe ai margini come tante altre da un sistema economico spietato, ma che sanno trovare la forza di unirsi spontaneamente per trovare la libertà. Ed è anche una rappresentazione efficace e in anticipo sui tempi dei nessi interni di questo sistema economico: dal porto in cui, in periodo di piena bolla economica, la draga scava per rendere accessibili i bacini a navi oceaniche sempre più grandi e piene di merci (il film è stato girato anche qui dal vivo, con la draga che lavorava incessantemente per questo scopo reale), fino alle agenzie di collocamento, che allora nei porti offrivano essenzialmente lavoro precario, o ai senzatetto totalmente emarginati e, in ultimo, alla speculazione cementificatrice che divora l’ambiente offrendo sogni irreali. I collegamenti con “The Forgotten Space” di Sekula & Burch, realizzato quasi un secolo dopo, sono davvero numerosi.

Genova: camalli, noir e marginalità in tre film

Un’ulteriore dimostrazione di come il connubio mare-cinema sia in grado di dare vita a preziose riflessioni politiche e sociali ce la dà Genova, la città portuale italiana per eccellenza. Il film dal quale iniziamo il nostro itinerario genovese è “Les hommes du port” (trad. letterale in italiano “Gli uomini del porto”), un documentario del 1995 diretto dal regista svizzero Alain Tanner, autore noto internazionalmente per film come “La salamandra” (1971) e “Jonas che avrà 20 anni nel 2000” (1975). Il fatto che a girare uno dei rari film incentrati su Genova sia stato proprio un regista svizzero, paese senza sbocchi sul mare, può a prima vista sembrare paradossale, ma è presto spiegabile. Tanner da giovane era innamorato del neorealismo italiano e quando era ancora diciottenne, nel 1947, ha visitato Genova, dove è poi tornato nel 1952 in cerca di una vita diversa da quella soffocante della sua borghese Ginevra. Nella capitale ligure Tanner ha lavorato per un anno come impiegato di una società di navigazione e poi per un altro anno come commissario di bordo su una nave cargo, prima di avviare la propria carriera cinematografica. Il regista ha pertanto maturato una profonda familiarità con la città e in particolare con il mondo dei lavoratori portuali. Nel 1995, a quasi 40 anni di distanza dalla sua prima esperienza, vi è tornato con questo documentario in parte nostalgico che è una testimonianza dei cambiamenti verificatisi nell’universo portuale genovese.

les hommes du port

Il momento del suo ritorno è particolare, perché un’istituzione di fondamentale importanza per la città, la CULMV, cioè la Compagnia Unica fra i Lavoratori di Merce Varie che riuniva in forma autorganizzata i camalli, si sta trasformando in azienda privata e lo stesso porto di Genova è in corso di privatizzazione sotto il primo governo Berlusconi. La Compagnia Unica, fondata nel 1946, ma le cui radici risalgono addirittura al 1340, era un’organizzazione radicalmente democratica che univa gli scaricatori di porto autorganizzati in assemblea e ne promuoveva con forza i diritti, garantendo allo stesso tempo tutele sociali, come il salario minimo e le ore di lavoro garantito. Grazie alla sua autorganizzazione democratica la Compagnia Unica ha avuto un ruolo di grande rilevanza nella ricostruzione del dopoguerra, nella difesa dei diritti dei lavoratori e nelle mobilitazioni politiche, ad esempio durante i cosiddetti “fatti di Genova” del 1960 contro il tentativo di tenere in città il congresso del partito neofascista Msi, ritratti nel documentario di Tanner con immagini d’archivio (in rete si può leggere un’interessante storia della Compagnia Unica). Una tradizione democratica che però all’epoca era già stata intaccata. Per esempio, secondo le regole la Compagnia Unica era rappresentata da due consoli eletti con un mandato di due anni, ma nonostante questo limite, Paride Batini, che aveva forti legami istituzionali, è stato alla sua guida per ben 26 anni, segno di una degenerazione burocratica. Nel 1995 comunque la Compagnia non era più quella di una volta e si era ridotta ad alcune centinaia di soci, il 90% in meno delle sue punte più alte. I camalli di Genova erano appena usciti da un quinquennio di lotte durissime contro i tentativi di deregolamentazione del lavoro nel porto, durante il quale erano stati additati da una campagna della stampa di regime (tra i giornalisti che più si erano accaniti contro di loro vi era Giorgio Bocca) come una categoria privilegiata che si arroccava sulla difesa di privilegi, come il vecchio che non si voleva arrendere al “nuovo che avanza”. In realtà, osserva Tanner, chi attaccava i camalli era preoccupato principalmente di affermare il principio borghese secondo cui “è vietato mischiare intelligenza e vita operaia”. Alla fine i camalli sono riusciti solo a salvare il salvabile, e oggi la Compagnia Unica è di fatto una società privata compartecipata da società internazionali che gode di un semimonopolio. Tanner coglie il momento di transizione del 1995 con un film segnato da un persistente sottofondo nostalgico, nonostante affronti con franchezza la realtà di allora. “Les hommes du port” è una pellicola comunque prevalentemente solare, piena di luce, di primi piani di camalli ormai quasi tutti con i capelli grigi, di navi che arrivano e che partono tra le banchine sullo sfondo della città. Al centro di questo mondo fatto di sole e di movimento vi sono lavoratori che credono profondamente nei principi dell’autogestione e della solidarietà collettiva. C’è chi negli anni di lavoro è riuscito a laurearsi, ma continua a lavorare come scaricatore, chi grazie alla gestione collettiva degli orari di lavoro riesce a contemporaneamente a curare il bestiame e l’orto di famiglia sui colli sopra Genova. Nelle assemblee della Compagnia Unita si parla ancora il dialetto, evidentemente ancora comprensibile a tutti. Come anche Sekula e Burch in “The Forgotten Space”, Tanner sottolinea nel suo film il momento di rottura segnato dall’introduzione del container, un dispositivo che occulta ai lavoratori il contenuto di ciò scaricano e che il porto di Genova è stato il primo ad adottare in Europa nel 1969. Quello che prima veniva scaricato da 80 camalli, oggi viene gestito da una dozzina di loro e mentre prima i tempi di scarico di una nave si contavano in giorni, oggi si contano in ore. Le squadre di lavoro sono frammentate, cessa la comunicazione diretta e ci si parla attraverso il walkie-talkie. E’ stato più o meno a quell’epoca che a Genova è stata costruita la sopraelevata che ha diviso il porto dalla città. L’antica e stretta Via Prè antistante il porto, così come ritratta da Tanner nel 1995, è una via che sta cambiando volto, sempre meno popolata da camalli, il cui numero si è enormemente ridotto, e da marinai, che con l’accelerazione dei tempi di carico e scarico delle navi si fermano solo brevissimamente nella città. I nuovi immigrati, che si insediano in case insalubri, sono osteggiati da una parte della popolazione e proprio all’epoca di “Les hommes du port” vi era stato un indegno episodio di caccia allo straniero. Uno sviluppo che forse non casualmente avveniva quasi in contemporanea con l’avvio allora di progetti di gentrificazione del Porto Vecchio e del centro di Genova, oggi ormai in larga parte portati a termine, che hanno popolato la città delle solite “grandi marche” e di un turismo mordi e fuggi. “Les hommes du port” è il prezioso documento di una storia importante, come quella dei camalli di Genova, e del momento in cui si chiudeva definitivamente un’epoca per il sistema marittimo internazionale descritto più globalmente da Sekula & Burch quindici anni dopo. Guardandolo, si ha l’impressione di avere aperto una finestra su una situazione non di una ventina di anni fa, ma molto più lontana nel tempo, tanto sono cambiate le cose. Alla fine rimane il gusto amaro di un’opera che dipinge una delle molte sconfitte registrate dai lavoratori negli ultimi decenni. Nel documentario di Tanner, Paride Batini, il console della Compagnia Unica oggi scomparso, nel tentativo di articolare al contempo sia il proprio sostegno alla privatizzazione del porto, non essendovi, secondo lui, alternative praticabili, sia la propria perplessità di fronte al liberismo imperante, si lascia scappare una frase un po’ confusa, ma emblematica di questa sconfitta, affermando che il liberismo rende l’uomo “veramente un po’ troppo schiavo del sistema”, come se lo scadere allo stato di schiavi potesse essere misurato come eccessivo oppure accettabile.

In “Les hommes du port” Tanner ritrae una Genova in crisi, ma pur sempre solare. E’ interessante affiancare a questo ritratto quello che di Genova danno due altri film che dipingono invece la città portuale con tonalità molto più chiaroscure. Quasi mezzo secolo prima del film di Tanner, Genova era stata il set di un notevole film che coniugava gli stilemi del cinema neorealista con quelli del realismo poetico francese e del noir. Stiamo parlando di “Le mura di Malapaga” (1948) (titolo francese: “Au-dela des grilles”), una coproduzione franco-italiana diretta da René Clement e interpretata da due note star, Jean Gabin e Isa Miranda, nonché con sceneggiatura, tra gli altri, di Cesare Zavattini. La vicenda narrata è quella di un francese (Jean Gabin) che ha ucciso la moglie e fugge clandestinamente su una nave fino a Genova, dove trova rifugio e conosce una donna (Isa Miranda) perseguitata dall’ex marito, con la quale intreccia una relazione mentre la polizia gli dà la caccia. Il film ci offre preziosi squarci di Genova, in particolare del porto prima della costruzione della sopraelevata che lo separa dal resto della città, ma che nel secondo dopoguerra era circondato da cancelli sorvegliati dalla polizia. La Genova ritratta è una città dell’epoca pre-container, prevalentemente notturna, fatta di trattorie per squattrinati, di vicoli affollati e di imponenti palazzi antichi in rovina occupati da senza casa. E’ una città povera, ma anche positivamente popolare, in cui magari a volte si è costretti a fregare il prossimo per sopravvivere, ma dove nascono anche forme di solidarietà disinteressata tra chi è in difficoltà. A questo universo si contrappone quello da esso distante di un’anonima quanto inesorabile Legge che cerca e trova il protagonista per punirlo, impedendogli di riprendere la via del mare.

la bocca del lupo

Molto diversa da quella di Tanner è anche la Genova che emerge da “La bocca del lupo” (2009) del regista Pietro Marcello. Si tratta di un film particolarmente ricco perché si dipana su più strati, dalle immagini della Genova del ventunesimo secolo fino a quelle d’archivio di inizio novecento o degli anni cinquanta-settanta, dal porto con i suoi cantieri e l’industria a esso collegata fino a una storia d’amore nei vicoli. Anche in “La bocca del Lupo”, come ne “Le mura di Malapaga”, al centro della storia narrata vi è un uomo che ha commesso gravi reati e ha dovuto fare i conti con la legge. Enzo, un uomo allo stesso tempo violento e tenero, dalla presenza fisica angolare e imponente, ha passato in tutto 27 anni della sua vita in carcere, dopo un’infanzia passata ad aiutare il padre nei suoi contrabbandi di sigarette nei vicoli di Genova. In carcere Enzo ha conosciuto Mary, una trans allora tossicomane che vi è stata reclusa per un periodo più breve. Tra i due è sbocciata una storia d’amore e Mary ha atteso pazientemente per anni l’uscita del suo uomo dalla prigione, finché i due riescono alla fine a coronare il sogno di vivere in una casetta con l’orto sui colli di Genova. Il filo conduttore del film è quello del racconto del passato di Enzo e Mary e della loro storia d’amore che scorre sulle immagini dei vicoli di Genova, della loro casa angusta, ma caldamente intima. Questo filo conduttore si intreccia però con un universo molto più ampio. Uno dei temi più ricorrenti è quello della memoria della città, che scorre in parallelo alla memoria della storia raccontata dai due protagonisti: nelle immagini di repertorio vediamo raffinerie, il varo di navi nel cantiere, ma anche i ruderi del Secondo dopoguerra, le demolizioni per dare spazio al “nuovo che avanza” o un senzatetto che si costruisce una precaria baracca. Sono temi che si ricollegano con le immagini attuali di Genova, come quelle dello smantellamento dei binari ferroviari nel porto, gli alti edifici moderni cresciuti là dove si è demolito. Ma anche le riprese di migranti che si rifugiano in anfratti sugli scogli, di altri senzatetto, di trans e immigrati nei vicoli notturni della città si ricollegano alla marginalità dei due protagonisti rispetto alla Genova diurna ormai ampiamente gentrificata. Una marginalità che emerge anche dalle parole arrabbiate di Enzo, che a un certo punto dice a un interlocutore: “Sono troppo giovane per avere la pensione e troppo vecchio per trovare un lavoro. Cosa faccio? Rapine, sequestri?”. E anche in “La bocca del lupo” il ruolo del container, questo strumento fondamentale della “rivoluzione permanente del capitalismo”, viene messo in risalto: il film si apre con il profilo di una nave cargo carica di container e poco dopo Enzo fa la sua prima comparsa aggirandosi, in alcuni momenti a fatica, in un groviglio di ingombranti container. Lungo l’intero film la città appare frammentata, tra spezzoni di repertorio, luoghi angusti, riprese ad angolo stretto. Solo in chiusura riusciamo a vederla con un solo colpo d’occhio, quando il regista Pietro Marcello riprende Enzo nel suo orto in collina e dietro il suo primo piano si vede l’intera città con il porto e la costa fino al Monte di Portofino. A suo modo questa visione finalmente spaziosa e libera da ostacoli, ripresa dal luogo dove i due protagonisti hanno finalmente realizzato il loro sogno di pace, è un’immagine di speranza.

Quando il pesce diventa denaro: pesca e capitalismo

“La pesca”, ha detto Allan Sekula, “è l’ultima attività umana condotta su larga scala finalizzata a procurarsi cibo in ambiente selvaggio, e ciò la connette a pratiche non solo preindustriali, ma anche preagricole. Allo stesso tempo, l’industrializzazione dei metodi di pesca – pesca con palangaro o a strascico, trattamento e confezionamento del pesce a bordo – ha trasformato questa attività in un’onnivora industria estrattiva, analoga allo sfruttamento delle miniere a cielo aperto.” Nella sua visione globale del capitalismo odierno Sekula aveva dedicato attenzione anche a questo altro “spazio dimenticato” della produzione con il suo documentario “Tsukiji” del 2001, incentrato sull’enorme omonimo mercato del pesce a Tokyo. L’universo della pesca, come quello parallelo del commercio marittimo o dei porti, è stato spunto per alcune altre importanti riflessioni filmiche.

drifters

Già in epoca precoce l’arte cinematografica ha prodotto un’opera che riassume con efficacia e in modo avvincente il ciclo completo dell’industria della pesca e la sua dimensione globale. Stiamo parlando di “Drifters” (1929) (Trad. lett. it “Pescherecci con tramaglio”, ma anche, per associazione, “Coloro che vanno alla deriva”) opera unica di John Grierson, il cineasta che ha coniato il termine “documentario” e che nella sua carriera è stato attivo soprattutto come produttore, veste nella quale ha dato vita alla prima scuola documentaristica. La pellicola descrive la pesca dell’aringa al largo delle coste della Scozia. Negli intertitoli si precisa subito che la pesca non è più l’attività di una volta, si è meccanizzata e funziona in base a criteri di organizzazione industriale. “Drifters” segue le attività dei pescatori scozzesi con grande senso dello spettacolo e la visione del film è un vero piacere. Il Mare del Nord, con le sue enormi onde e le sue dure tempeste, è un protagonista che sa imporsi allo spettatore grazie anche alle temerarie riprese di Grierson. Il ritmo del montaggio è rapido, a sottolineare il fatto che l’attività della pesca si svolge in base a tempistiche serrate, come esemplificato dalla necessità per i pescatori, una volta tirate a bordo le reti, di tornare il più presto possibile al porto per vendere il pesce al prezzo migliore. Le stesse vittime di questa attività, cioè i pesci che finiscono nelle reti, non vengono ritratte nel film solo come una massa anonima ormai morta già pronta per essere trasformata in merce vendibile: grazie a una soluzione allora innovativa, cioè riprese attraverso il vetro di un acquario che sembrano effettuate sottacqua, vengono ritratti in primo piano mentre nuotano in acqua prima di essere pescati, mettendone in risalto la qualità di esseri viventi all’interno del loro ambiente ecologico. La forza maggiore di “Drifters” sta nella raffigurazione globale dell’intero ciclo dell’industria della pesca. Dall’uso intensivo di macchine (immagini dei motori in funzione delle navi in sovraimpressione su quelle dei pescatori), alle tempistiche strettamente regolamentate, alla salinatura immediata dei pesci nella nave stessa per garantirne la conservazione e quindi il trasporto verso i mercati di smercio, alla vendita all’asta del pescato con la relativa determinazione del prezzo e, infine, al trasporto per la vendita in luoghi lontani.

Il messaggio politicamente più forte legato alla pesca in mare aperto è pero quello di un’opera letteraria che è stata tradotta negli anni in due film. L’opera letteraria è “Il peschereccio di granchi” (“Kani kosen”), un romanzo breve delle scrittore proletario giapponese Takiji Kobayashi, pubblicato nel 1929 e disponibile anche in traduzione italiana, con un’ottima introduzione del traduttore Faliero Salis che ne inquadra con ricchezza di particolari il contesto. I due film sono rispettivamente “Kani kosen” di So Yamamura, del 1953, e “Kani kosen” di Hiroyuki Tanaka alias SABU, del 2009. Kobayashi, ucciso dalla polizia a soli trent’anni nel 1933 per le sue attività politiche, è rimasto nella storia come uno degli scrittori più emblematici della letteratura proletaria giapponese. Quello della letteratura proletaria è stato un fenomeno culturale di dimensioni mondiali oggi ingiustamente caduto nel dimenticatoio. Questa corrente letteraria internazionale ha radici lontane, che oggi alcuni studiosi fanno risalire addirittura alla letteratura statunitense del XIX secolo o alle opere dello scrittore americano Upton Sinclair uscite all’inizio del XX secolo. La letteratura proletaria ha ricevuto successivamente impulso della rivoluzione russa e in particolare dal Proletkult, l’organizzazione che ha operato in Russia dal 1917 al 1923 con l’obiettivo di creare le basi per un’arte proletaria, ma anche dalla successiva RAPP (Associazione Russa degli Scrittori Proletari – 1925-1932), diventata negli anni uno strumento delle politiche staliniste. La letteratura proletaria, oltre che negli Usa e nell’Urss è stata un fenomeno di rilievo anche nella Germania di Weimar, ma uno dei suo centri mondiali è stata l’Asia, e in particolare il Giappone, la Corea e la Cina, dove tra i due conflitti mondiali ha contaminato anche l’arte e il cinema (un’importante corrente letteraria proletaria è esistita anche nelle Filippine). In Corea l’organizzazione che raccoglieva gli esponenti dell’arte proletaria era la KAPF, cioè la Federazione Coreana degli Artisti Proletari, in Cina era Lega degli Scrittori di Sinistra (alle cui attività si affiancava in parallelo la ricchissima produzione della corrente del “cinema di sinistra” degli anni ‘930) e in Giappone era la NAPF, la Federazione delle Arti Proletarie del Giappone. Poiché il Giappone, paese colonizzatore e dall’economia capitalista più avanzata, era il luogo in cui molti degli intellettuali cinesi e coreani compivano i propri studi, l’influenza della sua cultura sulle letterature proletarie dei due paesi vicini è stata notevole. “Kani kosen”, quindi, pur essendo un’opera che fa specificamente riferimento alla realtà giapponese, è parte di un contesto politico e culturale altamente globalizzato.

Kani Kosen So

Il romanzo di Kobayashi si ispira a fatti reali e narra le vicende dei pescatori e operai di una nave-fabbrica che pesca granchi nelle gelide acque settentrionali del Giappone, inscatolandone la polpa direttamente a bordo mediante un impianto a nastro continuo. I due film tratti dal romanzo ne riprendono fedelmente la trama, con sole alcune varianti minori. Il trattamento riservato ai lavoratori/marinai è inumano: orari di lavoro incessanti, nessuna misura di sicurezza, percosse e insulti ininterrotti, cibo insufficiente, ambienti insalubri. A governare la nave è il brutale ispettore di bordo dell’azienda proprietaria della nave, che esautora di fatto il capitano, costretto a sottomettersi alla sua autorità. Una delle sue funzioni è quella di ricordare ai lavoratori che stanno lavorando per la gloria dell’imperatore e per rendere il Giappone sempre più potente. Nel corso della narrazione alcuni pescatori e lavoratori muoiono di stenti, altri perdono la vita in mare a causa della pericolosità del lavoro. Due di loro, persisi durante una sortita su una scialuppa, sbarcano sulle coste dell’Urss quando il peschereccio entra abusivamente nelle acque territoriali sovietiche. Hanno così l’occasione di vedere brevemente con i propri occhi un mondo non certo ricco, ma maggiormente fraterno. Al loro ritorno un gruppo di lavoratori organizza una ribellione e riesce a neutralizzare gli aguzzini. Quando il peschereccio è abbordato da una nave militare della Marina imperiale la maggior parte di loro è convinta di avere ottenuto una vittoria e che i responsabili delle torture a cui sono stati sottoposti verranno arrestati. I militari dell’imperatore arrestano invece chi aveva partecipato attivamente alla protesta, costringendo gli altri loro colleghi a riprendere il lavori di schiavi, in condizioni se possibile ancora peggiori.

Kobayashi conosceva bene l’ambiente descritto, avendo vissuto a lungo a Otaru, una città portuale dell’isola di Hokkaido. E da impegnato attivista comunista si è preoccupato di mettere strettamente in reciproca relazione nel suo libro temi come il militarismo, l’imperialismo, il capitalismo oligarchico e lo sfruttamento dei lavoratori. Per esplicita scelta dell’autore, Kani kosen non ha un protagonista principale, ma solo un eroe collettivo, cioè i pescatori-operai. Kobayashi evita anche la caratterizzazione psicologica e ogni altra forma di intellettualismo, dando vita a un romanzo dal forte impatto fisico, con punte quasi barocche in alcune raffigurazioni. Ne è un esempio un brano in cui si descrive il cadavere di uno dei pescatori morto di stenti: “Incrostato da piccole squame di sporcizia, sembrava un tronco di pino disteso. Le costole gli sporgevano vistosamente dal torace. Da quando il beri-beri si era fatto più violento non era più stato in grado di reggersi sulle gambe. Si era pisciato addosso, evidentemente, e non solo. Lo circondava una puzza orribile. […] La cavità dell’ombelico era a tal punto ovattata di polvere e sudiciume da nasconderlo completamente e intorno all’ano erano appiccicate piccole miche di merda secca simile ad argilla”. Kobayashi, che amava il cinema, usa nel suo romanzo svariate tecniche filmiche, come rileva Faliero Salis: “L’intera struttura dell’opera pare talvolta designata secondo le dinamiche del montaggio cinematografico” e adotta inserimenti della voce del narratore che ricordano la tecnica della voce over. Tra le due pellicole tratte dal romanzo, e che seguono entrambe fedelmente la sua trama, risulta più efficace, a opinione di chi scrive, il “Kani kosen” del 1953 diretto da So Yamamura, un film dove la cupezza degli spazi segregati in cui vivono i pescatori e gli operai si alterna con riprese di un mare gelido e nebbioso, o dell’intero processo della pesca e confezionamento a bordo, dallo sventramento manuale dei granchi fino all’inscatolamento meccanizzato della loro polpa, mettendo in evidenza il modo in cui il mare viene trasformato in denaro grazie a una rigida organizzazione basata su uno sfruttamento senza limiti della forza lavoro. La versione di SABU del 2009 ha una messa in scena di impianto prettamente teatrale (anche nei pochi esterni girati) e soffre non solo di una verbosità eccessiva, spesso tediosa, ma anche del fatto di avere scelto una chiave ironica che male si sposa con l’impianto narrativo.

kani kosen sabu

L’ultimo aspetto di estremo interesse di “Kani kosen” è che il libro di Kobayashi del 1929 è diventato del tutto inaspettatamente un best-seller nel 2009, fino a trasformarsi in un caso al centro di talk-show televisivi, di studi accademici e di dibattiti politici tra attivisti politici. Il remake di SABU è stato girato sull’onda di questa nuova popolarità del libro. Nei primi 80 anni dalla sua pubblicazione, scrive la studiosa Heather Bowen-Struyk, “Kani kosen” aveva venduto mediamente 5.000 copie all’anno, una quantità comunque per nulla trascurabile per un’opera appartenente a una corrente, quella della letteratura proletaria, che non ha mai goduto di una buona immagine mediatica. Nel 2009 però le vendite del libro sono improvvisamente balzate a 500.000 copie, facendone un vero e proprio best-seller. Il motivo di fondo è la situazione in cui si trovava allora il Giappone, duramente colpito dalla crisi economica globale dopo il ventennio di grande stagnazione successivo alla bolla finanziaria degli anni ’80, che ha visto una progressiva esplosione del lavoro precario (come dettagliato da Anne Allison nel suo libro “Precarious Japan”). Il romanzo di Takiji Kobayashi, scritto da un giovane di 26 anni vittima del sistema, parla ancora evidentemente ai giovani di oggi, vittime a loro volta di un sistema antidemocratico che li mette ai margini e li opprime sfruttandoli senza dare nulla in cambio.

Più niente da dire? Avanti, con la massima lentezza

In questa nostra rotta cinematografica siamo partiti dalla visione globale del sistema mondiale del trasporto marittimo in “The Forgotten Space” dataci da Allan Sekula per addentrarci poi nei porti di Los Angeles e di Genova e immergerci nel mondo della pesca industrializzata al largo della Scozia o del Giappone. In questa nostra esplorazione cronotopica siamo partiti da un documentario del 2010, e ci siamo mossi indietro e avanti nel tempo, tra gli anni ’20 del secolo scorso e la Grande recessione dell’inizio del XXI secolo, passando per il Secondo dopoguerra o gli anni delle grandi privatizzazioni nei ‘990. Chiudiamo il nostro viaggio con il film più recente di questa serie, “Dead Slow Ahead” (2015) del regista catalano Mauro Herce, nato e cresciuto a Barcellona e quindi, come Allan Sekula grazie a San Pedro o Alain Tanner grazie a Genova, in possesso di una conoscenza intima della realtà portuale e delle navi. “Dead slow ahead” è un termine tecnico che indica la velocità minima del motore di una nave, ma la parola “dead” allude anche ad altro, alla morte, a suoni sordi, alla monotonia. Il film è stato girato durante i due mesi e mezzo passati dal regista su una nave cargo, la Fair Lady, che trasportava grano sfuso attraversando l’oceano Atlantico e il cui equipaggio era composto da marinai per la maggior parte filippini. Il suo ritmo è estremamente lento, la cinepresa si sofferma a lungo su singole riprese dei dettagli della nave, su ambienti vuoti, su paesaggi marini o sui marinai al lavoro. Ci sono momenti spettrali, per esempio la ripresa della cabina di comando della nave in viaggio senza alcun uomo alla sua guida, o puramente estatici, come le scene in cui la gigantesca stiva assume l’aspetto di un’enorme cattedrale colorata di rosso, di verde e di giallo (Herce, che qui è al suo primo lavoro come regista, in precedenza aveva lavorato come direttore della fotografia). Gli eventi che contrassegnano il film sono ridotti all’osso: il carico della merce e la partenza, l’apertura di una falla che fa entrare acqua nella stiva, i marinai che chiamano al telefono i familiari per le feste.

dead slow ahead 3

L’episodio della falla è tra tutti il più immediatamente significativo. L’avaria è limitata e non comporta un rischio di naufragio, ma rischia di rovinare il grano nella stiva e di renderlo non commerciabile. La merce viene quindi portata in coperta per salvarla, un lavoro fatto interamente a mano utilizzando secchi e che, come ha spiegato Herce in un’intervista, ha richiesto un mese di lavoro, 17 ore al giorno, per essere completato. Una situazione di emergenza che, in sintonia con i ritmi del trasporto marittimo, è risolvibile solo con lentezza. Sebbene il film, come abbiamo già ricordato, sia spesso spettrale, non solo nelle immagini di ambienti vuoti e di meccanismi che girano anonimamente, ma anche nei suoni echeggianti che a volte ricordano le sonorità dei film horror, l’elemento umano vi ha comunque ampio spazio. I marinai, nonostante siano soverchiati dalle dimensioni della nave e dai suoi macchinari, rimangono parte essenziale di questo ritratto in movimento del sistema di trasporto marittimo. Il film però si chiude con le immagini e i suoni di un meccanismo del motore che gira incessante, senza che allo spettatore sia dato vedere il luogo di approdo della nave. I nessi con il documentario “The Forgotten Space” di Sekula e Burch sono numerosi e, forse, intenzionali. Alcune riprese sono quasi identiche: per esempio la chiglia che solca le acque sollevando onde ritratta con una ripresa in verticale, oppure la prua che solca il mare ripresa dall’alto del ponte sullo sfondo dell’orizzonte. E’ invece del tutto assente il container: le navi che trasportano cereali, così come le petroliere, operano ancora con merce sfusa nella stiva. Ma la differenza più notevole con “The Forgotten Space” è nell’approccio generale. Il film di Sekula & Burch è una visione del sistema globale del trasporto marittimo nella sua dimensione più ampia, che comprende non solo il porto, ma anche l’economia dell’entroterra che da esso dipende, e il cui filo viene tenuto insieme da una persistente voce over. In “Dead Slow Ahead” la parola è invece pressoché assente e quando compare è solo un frammento che non è portatore di alcun significato. Lo spazio non è più globale, ma quasi claustrofobico, spesso limitato al dettaglio della macchina-nave, e le rare vedute del paesaggio marittimo attraversato dalla nave, con il loro stile disconnesso e onirico, non fanno che rafforzare la sensazione di isolamento. “Dead Slow Ahead”, tuttavia, non è un’opera postmoderna sull’impossibilità di costruire un discorso critico globale, ma affronta invece temi come quello della merce, del lavoro, del rapporto uomo-macchina e della precarietà con un approccio originale, altamente attento alla resa estetica, ma allo stesso tempo implicitamente critico su un piano anche politico. Grazie alla ricca messa in scena complessiva, si presta a una lettura su più piani. Dalla prospettiva che qui ci interessa, cioè quella dei nessi tra mare e capitalismo, la nave ritratta da Herce ci dà l’immagine di un’economia capitalista che procede lenta, ma inesorabile, con i suoi meccanismi che “girano in automatico”, con la sua cabina di comando apparentemente priva di controllo umano, con la sua realtà nascosta fatta di merce costantemente a rischio di calo di prezzo, di lavoro manuale, con i suoi lavoratori profondamente umani, ma in posizione precaria e isolata.