Guida al cinema coreano, dalle origini ai giorni nostri

Una guida ragionata ai film della Corea del Sud e del Nord, dal periodo della dominazione coloniale giapponese, durante il quale la penisola non era ancora divisa in due stati, fino al secondo decennio del ventunesimo secolo.

CENNI STORICI SULLA COREA

La Corea, per secoli regno indipendente, è entrata a fine ‘800 nel mirino di diverse potenze mondiali, tra le quali infine ha prevalso il Giappone, che ha fatto della penisola prima un protettorato nel 1905 e poi una colonia dal 1910 al 1945. Si è trattato di un dominio di stampo razzista e molto repressivo, ma nel 1919 l’insurrezione di popolo dei coreani che chiedevano l’indipendenza, sebbene repressa nel sangue e sconfitta, ha consentito di ottenere per una quindicina di anni maggiori diritti, un periodo che si è poi rivelato fondamentale nel gettare le basi di una cultura nazionale moderna. Dopo la Seconda guerra mondiale la penisola coreana è stata divisa di fatto in due, con il nord industrializzato sotto la supervisione dell’Urss e il sud più povero e agricolo sotto la supervisione degli Usa. Nel giro di qualche anno la rivalità tra la Corea del Nord e quella del Sud è sfociata in una guerra, con l’invasione del Sud da parte delle truppe del Nord nel 1950 e i successivi ancora più devastanti sviluppi che hanno visto l’intervento degli Usa e della Cina, seguito infine dall’armistizio del 1953. La Corea del Nord è ancora oggi governata dalla medesima dittatura di allora, diventata ormai simile a una dinastia monarchica, mentre nel Sud diverse varianti di crudele dittatura anticomunista sostenute dagli Usa si sono susseguite fino all’insurrezione popolare del 1987, che ha portato a un processo di democratizzazione conclusosi nel 1997 con l’elezione a presidente dell’ex dissidente Kim Dae-jung. Su entrambi i lati del 38° parallelo che divide le due Coree dal dopo-Seconda guerra mondiale le sofferenze sono state enormi, non solo per la guerra di inizio anni ’50, che in soli tre anni ha causato un numero di vittime civili paragonabile a quello della ben più lunga guerra del Vietnam, ma anche per le violente repressioni, le torture, lo sfruttamento disumano del lavoro e la poverà. Il Nord, più economicamente avanzato del Sud fino a circa il 1970, ha poi registrato, in un contesto di crescente isolamento politico, una costante e forte flessione della propria crescita, fino alla carestia degli anni ‘90 che ha causato la morte per fame di oltre 1 milione di persone. Il Sud invece dagli anni ’70 e fino agli anni ’90 ha registrato una crescita vertiginosa della propria economia, che non ha pari nella storia moderna del mondo industrializzato. Tutti questi peculiari fattori hanno naturalmente inciso sulle caratteristiche della produzione cinematografica coreana di cui tratto qui di seguito.

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IL CINEMA COREANO PRIMA DELLA DIVISIONE DEL 1945

Molti dei film coreani fino all’inizio degli anni ‘950 (e alcuni anche oltre tale data) sono andati perduti, in particolare l’intero cinema muto fatta eccezione per una sola pellicola, ma rimangono alcuni gioielli da vedere. Prima di consigliarne in particolare due, premetto che negli anni ’20-inizio anni ’30 si è sviluppata in Corea un’importante corrente di arte e letteratura proletaria, che è stata accompagnata anche dalla produzione di cinque o sei film sicuramente molto interessanti, stando alle informazioni oggi ancora reperibili, ma purtroppo andati tutti distrutti per incuria. Tra i film dell’epoca coloniale che sono invece sopravvissuti segnalo in particolare “Sweet Dream” di Yang Ju-nam (1936), un bel ritratto urbano delle inquietudini di una donna moderna, con svariate riprese in esterni della Seul di allora. Molto poetico e sintomatico delle contraddizioni dell’epoca è “Spring in the Korean Peninsula”, di Lee Byung-il (1941), con un “film nel film” e particolare attenzione per la figura femminile: un raro esempio di cinema che è riuscito ad aggirare la feroce censura dei colonialisti giapponesi. Si tratta di pellicole che non sono di esclusivo interesse storico, e che invece ancora oggi sanno offrire allo spettatore un forte impatto estetico e narrativo.

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Spring in the Korean Peninsula, 1941

COREA DEL SUD

Nota introduttiva: Il Kofic (Korean Film Council) e il Kfa (Korean Film Archive) fanno un eccezionale lavoro di promozione del cinema coreano che non ha pari altrove, innanzitutto con il canale Youtube https://www.youtube.com/user/KoreanFilm/videos che offre oltre 200 film dagli anni ’30 fino a fine ‘900 sottotitolati in inglese, e spesso in HD – per molti di essi si può trovare una breve introduzione critica orientativa sul Korea Blog (si può partire da qui: https://blog.lareviewofbooks.org/the-korea-blog/grandma-minari-grindhouse-femme-fatale-kim-ki-youngs-insect-woman-1972/). Sui loro rispettivi siti Kofic e Kfa offrono svariati saggi, in particolare una valida e agile storia del cinema coreano in inglese (http://www.koreanfilm.or.kr/eng/publications/history.jsp). Il Kofic pubblica una rivista e una newsletter che vanno al di là dei fini strettamente promozionali che di norma contraddistinguono pubblicazioni di tale tipo e gestisce anche un “Imdb coreano” (https://www.kmdb.or.kr/eng/main) di alto livello. A Seul il Kfa ha un’ottima cineteca che offre proiezioni gratuite.

Il melodramma è un asse portante del cinema della Corea del Sud, non solo come genere in sé, ma anche come tonalità all’interno di altri generi – per esempio nei thriller accade spesso che i duri si lascino andare alle lacrime. Un altro aspetto spiazzante per chi non vi è abituato può essere lo stile di recitazione nei film più commerciali, molto calcato e da commedia dell’arte. Si tratta di elementi stilistici che hanno una loro ragione storica, cioè le immani sofferenze di cui la storia coreana abbonda, come abbiamo ricordato sopra. La lingua coreana ha una parola pressoché intraducibile, “han”, per indicare questo “sentimento nazionale”: un misto di dolore, nostalgia per la felicità perduta e aspro risentimento per le sofferenze subite.

Tra i film dell’immediato dopoguerra va ricordato in particolare “A Hometown in Heart” del 1949, diretto da Yoon Yong-kyu, un’opera di grande bellezza che ritrae attraverso un orfano ospitato presso un tempio buddhista le lacerazioni di quel periodo di divisione nazionale.

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A Hometown in Heart, 1949

Gli anni ’50 sono in Corea del Sud l’epoca d’oro del melodramma e l’opera fondamentale di questo genere è “Madame Freedom” (1956) di Han Yeong-mo, che di nuovo pone al centro una figura femminile alla ricerca dell’indipendenza e il suo disagio in un ambiente urbano in rapida modernizzazione. Un altro regista fondamentale dell’epoca è Shin Sang-ok, fatto poi rapire nel 1978 da Kim Jong-il, allora a capo della Corea del Nord, e portato come la moglie attrice a Pyongyang, dove ha girato svariati film tra i quali il cult “Pulgasari”, salvo poi fuggire rocambolescamente. Il suo melodramma neorealista tinto di noir e incentrato sulla figura di una prostituta, “The Flower in Hell”, del 1958, è un’altra opera fondamentale del decennio e uno dei primi film del paese girati prevalentemente in esterni. Ci sono molti altri melodrammi interessanti dell’epoca, firmati dai summenzionati registi o da altri, ma sono opere già più da amatori. Un film per molti versi fondamentale del decennio è “Piagol” del 1955, diretto da Lee Kang-cheon, una pellicola realista “noir” che tratta il tema della resistenza nord-coreana in terra sud-coreana dopo la guerra del 1950-53 con ambientazioni in stile western, davvero notevole anche se, visto il tema tabu per l’epoca, risente della censura a livello di sceneggiatura.

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The Flower in Hell, 1958

Nel 1960 in Corea del Sud vi è stata una rivoluzione democratica, seguita però già nel 1961 da un colpo di stato militare che ha instaurato un sistema dittatoriale. Nel corso di questo breve intervallo sono usciti un paio di film fondamentali per la storia del cinema nazionale. Il primo è “Stray Bullet” (noto all’estero anche con il titolo originale “Obaltan”), un film urbano neorealista del 1961 che descrive con efficacia la disperazione del post-Guerra di Corea attraverso le vicende di una famiglia di esuli nord-coreani a Seul. E’ diretto da Yoo Hyun-mok, che ha girato molti altri film di valore tra gli anni ’50 e la fine dei ’70. Il più importante debutto del periodo (sebbene in realtà avesse già girato un ottimo film poco noto in precedenza) è però quello di Kim Ki-young, annoverabile tra i massimi registi coreani, sebbene il suo stile sia alquanto peculiare e non certo quello di un classico. Il suo “The Housemaid” del 1960 è un melodramma-horror dal finale grottesco e uno dei capolavori del cinema coreano in generale. Incentrato sulla figura di una cameriera a servizio presso una famiglia piccolo-borghese, di cui seduce il padre causando una violenta e caotica disgregazione del nucleo familiare, è un concentrato delle angosce e delle nevrosi della Corea del Sud del dopoguerra, simbolizzate tra le altre cose dai topi che infestano la casa, un tema che ricorre insistentemente nell’opera del regista. Dopo “The Housemaid” Kim ha realizzato svariati ottimi (e spesso incredibili, astrusi) film in cui ritornano ossessioni e incubi tipici dell’era dittatoriale, incentrati in particolare su figure di uomini smascolinati. Segnalo in particolare “The Insect Woman” del 1972, due dei tre remake che ha fatto del suo stesso film “The Housemaid” e che comprendono anche “Fire Woman” del 1971 e “The Woman of Fire ‘82” (entrambi da vedere dopo l’originale). Da vedere anche due altri film di grande impatto narrativo e visivo, “Io Island” del 1977 e “Promise of the Flesh” del 1975.

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Woman of Fire, 1971

Due altri tra i migliori registi dell’era ’50-primi anni ‘80 sono Kim Soo-yong e Lee Man-hui. Kim è noto soprattutto per il film su temi esistenzialisti “Mist” del 1967, in effetti notevole, ma ha dato secondo me di più con film come il realista “Sorrow Even Up in Heaven” del 1965, il melodramma “Late Autumn” del 1982, la storia di una donna in permesso di uscita dal carcere e di un suo fugace amore, remake di un film coreano degli anni ’60 andato perduto e oggetto a sua volta di due remake, di cui uno giapponese, e “Night Journey” del 1977, che offre tra le altre cose un bel ritratto urbano della Seul di allora. Lee Man-hui, molto prolifico, ha girato di tutto, in particolare molti film commerciali, ma anche film importanti come l’ennesimo melodramma-noir “The Devil’s Stairway” (noto anche come “The Evil Stairs”) del 1964 e nello stesso anno “Black Hair”, una torbida storia di gangster e prostituzione. Il suo “A Day Off” del 1968, uno dei film più interessanti di questo periodo, ritrae la giornata di un uomo e una donna alla ricerca di soldi per l’aborto di lei in una Seul povera e ostile, mentre “Road to Sampo” (1975) è un bel road-movie invernale con al centro tre spostati in una Corea stretta nella morsa del gelo e tratto da uno dei capolavori della letteratura coreana.

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A Day Off, 1968

Negli anni ’80 continua ad avere un ruolo di primo piano la tematica degli spostati, delle persone ai margini della società (ora più di frequente giovani), ma in modo più colorato, pur preservando i forti toni melodrammatici. Uno dei registi più emblematici del decennio è Lee Jang-ho, di cui vale la pena di vedere soprattutto il surreale e satirico semi-muto “Declaration of Fools” (noto anche come “Declaration of Idiot”) del 1983. Rappresentativo anche il suo drammone “Heavenly Homecoming to Stars” del 1974, che ha avuto un successo di pubblico enorme. Altri registi che hano realizzato melodrammi notevoli nei ’70-’80 sono Bae Chang-ho, per esempio con “Flower of the Equator” (1987) e Kim Ho-sun con “Yeong-ja Heydays” del 1974 e “Winter Woman” del 1977. Più esplicito nel mettere in luce il clima di oppressione è “Last Witness” di Lee Doo-yong, del 1980, uno pseudopoliziesco girato in ambienti torbidi e che non a caso ha avuto problemi di censura. Sono tutti film che vanno letti alla luce del fatto che sono stati realizzati in condizioni di rigida censura e sotto una delle dittature più feroci del mondo in quel periodo. A volte possono lasciare perplessi a livello di impianto narrativo, contenuti maschilisti e altro ancora, ma hanno una notevole forza nell’esprimere rabbia repressa e disorientamento, spesso con un buon lavoro a livello visivo e di ambientazioni.

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Declaration of Fools, 1983

Verso la fine degli anni ’80 si diffonde un movimento cinefilo dal basso strettamente collegato alle lotte contro la dittatura, con cineclub, proiezioni di gruppo e una particolare attenzione per le teorie del cinema politico latinoamericano, visto come vicino a causa delle allora simili condizioni politiche. Ciò ha portato alla creazione di numerosi collettivi che hanno prodotto soprattutto corti, spesso sperimentali, di sicuro notevoli ma assolutamente introvabili se non negli archivi a Seul. Qualcosa di questo fermento è però trapelato nella produzione mainstream, per esempio in un classico come “Chilsu and Mansu”, uscito nel 1988 alla fine della dittatura, la fiaba agrodolce di due operai che, saliti su un tetto per riposarsi vengono erroneamente ritenuti dei lavoratori in sciopero, con tutte le paradossali conseguenze del caso. E’ stato diretto da Park Kwang-su, un regista militante che ha girato poi diversi film di valore a tema direttamente politico, come “The Black Republic” del 1990, su un ricercato che si nasconde tra gli operai di una cittadina mineraria, “To The Starry Island” (1993), sul peso allora ancora vivo dell’anticomunismo dei decenni precedenti, “A Single Spark” sulla storia reale di Chong Tae-il, giovane attivista sindacale bruciatosi vivo nel 1970 in segno di protesta contro le terribili condizioni di lavoro delle operaie del tessile. Il più importante film militante dell’epoca è però “Night Before the Strike”, opera collettiva non firmata uscita nelle sale solo nel 1990 e le cui precedenti proiezioni clandestine alla fine della dittatura hanno provocato scontri con la polizia e altri disordini – il titolo dice quasi tutto, una fiction alquanto tetra e dai toni documentaristici che descrive in modo per nulla romantico i processi di sindacalizzazione in una fabbrica, fino all’organizzazione di uno sciopero. Altro film molto bello che rompe un tema tabu, di nuovo senza romanticizzare, è “North Korean Partisan in South Korea” (1990) di Jeong Ji-yeong, sui partigiani nord-coreani rimasti a combattere in territorio sud-coreano in un isolamento disperato dopo la Guerra di Corea. Molto più tardi, nel 2012, lo stesso regista, sempre sensibile ai temi politici, ha fatto un film valido, ma di non gradevole visione per la sua crudezza, “National Security”, sul sistema di tortura carceraria della dittatura anticomunista. La stagione del cinema militante è terminata molto presto dopo la dittatura. Rimane da citare un film noto come “A Petal” del 1996 (regista Jang Sun-woo), sul trauma successivo alla repressione nel sangue, da parte della dittatura, dell’insurrezione popolare della città di Gwangju nel 1980. Si tratta di un film dagli intenti più che apprezzabili, ma forse un po’ troppo cervellotico.

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Chilsu and Mansu, 1988

Verso la fine degli anni ’90 debuttano quasi tutti i registi che hanno poi dominato l’inizio del nuovo millennio, ottenendo eco anche all’estero: in particolare Bong Joon-ho (il cui film “Parasite” vincitore dell’Oscar nel 2020 non è a mio parere tra i migliori da egli diretti), Lee Chang-dong, Hong Sang-soo e Park Chan-wook. Il primo, Bong, tra molti alti e bassi, ha diretto il notevole fumettone “The Host” (2006), con molti elementi di satira politica e bel po’ di humour, e la commedia acida “Barking Dog Never Bites” (2000). Lee Chang-dong è tra i tre quello che più aderisce allo stile classico del dramma impegnato “da festival” e di suo segnalo in particolare “Peppermint Candy” (1999) sul disorientamento post-dittatura, così come il più recente “Burning” (2018), storia di gioventù frustrate e di alienazione. Anche la produzione di Park Chan-wook ha avuto alti e bassi, e alcuni dei suoi lavori sono stati commercializzati in modo antipatico sotto l’etichetta del “cinema estremo” violento, ma la sua “trilogia della vendetta” è davvero notevole, soprattutto l’ampiamente noto “Oldboy” (2003), preceduto da “Sympathy for Mr. Vengeance” (2002) e seguito da “Lady Vengeance” (2005) – in tutti ricorre indirettamente il tema delle ferite lasciate dalla dittatura. Da vedere anche “JSA-Joint Security Area” del 2000, un giallo “politico” ambientato sul confine tra le due Coree e di solida presa spettacolare.

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Sympathy for Mr. Vengeance, 2003

Hong Sang-soo è un caso a parte ed è a parere di chi scrive tra i registi in attività più interessanti a livello globale. Le descrizioni verbali dei suoi film possono scoraggiare chi non lo ha ancora approcciato, perché le parole fanno fatica a cogliere tutta la ricchezza del suo stile essenziale, ma pervaso di mille sottili inquietudini. Per esempio, se si scrive semplicemente che sono in larga parte incentrati su dialoghi e molto spesso hanno come protagonista centrale un regista non si sbaglia, ma si incorre nel rischio di dare l’impressione che siano film noiosi e sterili. Invece sono gioielli nel gioco tra gli attori, nell’uso delle luci, nel costruire storie che si ripetono con variazioni, nel ritrarre, spesso con humor, l’instabilità delle relazioni sociali e molto altro ancora, sebbene non vi si trovi nulla di esplicitamente “impegnato”. Hong ha tra l’altro un dono oggi raro, quello della sintesi: quasi tutti i suoi film non superano la durata di un’ora e mezzo, alcuni addirittura superano di soli pochi minuti l’ora.  Nessuno dei suoi film spicca in modo particolare tra gli altri, sono di fatto un continuum complessivo in costante evoluzione, fruibile al meglio con visioni di più sue opere – e tra l’altro Hong ha una filmografia molto vasta. Sconsiglio di cominciare dal primo, “The Day a Pig Fell into the Well” del 1996, perché ancora grezzo, per quanto di valore. Cito un po’ a caso, tutti tra inizio 2000 e oggi, “Oki’s Movie”, “The Day He Arrives”, “The Day After”, “Tale of Cinema”, “Grass”, “Hill of Freedom”, “Yourself and Yours”, “Our Sunhi”.

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Oki’s Movie, 2010

Un altro regista apprezzato internazionalmente è Kim Jee-woon e il suo inquietante horror metafisico “A Tale of Two Sisters” (2003) è in effetti molto interessante nonché uno dei film più originali usciti in questo inizio millennio a livello internazionale nell’ambito di tale genere. Buona anche la sua commedia grottesca sulla mentalità piccolo-borghese “The Quiet Family” (1998). Nel complesso la commedia non è a parere di chi scrive un piatto forte del cinema coreano, segnalo però per i suoi elementi originali una pellicola godibile e innovativa come “Attack the Gas Station” (1999), dai toni irriverenti e giovanili. Un’altra commedia coreana classica e divertente, incentrata sulla figura della ragazza “stramba” e che traduce nel contesto coreano temi classici della commedia screwball di Hollywood, è “My Sassy Girl” del 2001, diretto da Kwak Jae-young, che ne ha fatto uno dei grandi successi di pubblico del cinema coreano. Stimolante e decisamente ben congegnata anche la commedia indipendente “Daytime Drinking” di Noh Young-seok, regista interessante per il modo in cui tratta tematiche di genere in un’ottica non commerciale, come per esempio in un altro suo film, il thriller-horror di montagna con sfumature “nord-coreane” “Intruders”, del 2013.

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Intruders, 2013

La Corea del Sud è nota nel mondo da un paio di decenni per i suoi blockbuster ben confezionati. In realtà, sebbene spesso offrano spesso spunti interessanti in termini di visualità o di trovate narrative, finiscono molto spesso nella banalità, anche perché al di là della superficie patinata le sceneggiature sono di frequente deboli e/o incentrate su luoghi comuni narrativi. Nel primo decennio del 2000 ci sono stati alcuni thriller apprezzabili, o altri blockbuster interessanti nel loro complesso, o almeno dal punto di vista sociologico, ma ormai questo filone si sta facendo sempre più vuoto e ripetitivo. Mi limito a segnalare tra quelli più godibili thriller come “A Bittersweet Life” del già citato Kim Jee-woon, “A Dirty Carnival” del 2006, diretto da Yoo Ha, e “Veteran” (2015) di Ryoo Seung-wan. Quest’ultimo ha diretto nel 2021 con ottimi risultati “Escape from Mogadishu”, un action spettacolare ambientato in un contesto del tutto particolare, quello della Somalia in disgregazione negli anni ’80 e della fraternizzazione tra diplomatici sud- e nord-coreani di fronte a una crisi politica devastante. Un altro successo travolgente di questi ultimi anni è stato lo zombie movie “Train to Busan” (2016), diretto da Yeon Sang-ho, che inserisce in una trama avvincente, sebbene con personaggi un po’ troppo scontati, alcuni temi sotterranei come quello del conflitto di classe. Un divertente thriller di produzione Netflix, “Steel Rain” (2017), dipinge in modo spettacolare una situazione in cui in seguito a un colpo di stato militare nella Corea del Nord, un agente dei servizi segreti locali si trova a scappare in Corea del Sud con l’ingombrante corpo del dittatore nord-coreano Kim Jong-un in coma dopo un attentato. Il finale è “nucleare”. Il sequel, “Steel Rain 2”, è invece sotto tutti i punti di vista pessimo. Sui temi di lotta di classe “nascosti” nel cinema popolare sud-coreano ho scritto una rassegna a cui rimando chi fosse interessato ad approfondire: https://cinemaglobale.wordpress.com/2017/12/21/zombie-dittatori-e-chaebol/

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Veteran, 2015

Le tendenze del primo decennio dei 2000, al di là dei blockbuster e delle opere dei registi noti all’estero, sono esemplificate da tre film di particolare interesse. “Cafe Noir” di Jung Sung-il (2009) è una pellicola lunga e complessa che mette in gioco temi storici ed esistenzialisti sullo sfondo di una ricca geografia di Seul. “Castaway on the Moon” (2009) di Lee Hae-jun offre con molto humour un’altra prospettiva su Seul, vista da un novello Robinson Crusoe rimasto assurdamente intrappolato su un’isoletta del fiume che attraversa la capitale. Molto bello anche “Take Care of My Cat” (2001) di Jeong Jae-eun, la storia di quattro ragazze di Incheon, città satellite di Seul e grande porto, in un contesto di differenze di classe e difficile accesso al mondo adulto.

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Take Care of My Cat, 2001

L’ultimo decennio è contrassegnato da un cinema indipendente vivace e che copre tematiche molto varie, sebbene senza “capolavori” particolari (spesso sono registi esordienti o comunque alle prime armi, molto frequentemente si tratta di donne registe, altrimenti quasi inesistenti nella precedente storia del cinema coreano). Il tema più comune è quello della condizione di precarietà, economica o esistenziale, che colpisce le generazioni più giovani e le donne in particolare. Tra i tanti che si potrebbero citare, segnalo qui di seguito quelli che a mio parere sono più stimolanti. “Door Lock” (2018) di Lee Kwon è un thriller sul classico tema della casa violata da un intruso, che mette in evidenza l’ostilità della società coreana nei confronti delle donne. “Winter’s Night” (2018) di Jang Woo-jin, un film sulla solitudine e le difficoltà di coppia strutturato in modo originale e con ambientazioni invernali molto belle. “Han Gong-ju” (2014) di Lee Su-jin, il percorso di un’adolescente vittima di stupro alla ricerca di se stessa. “Lucky Chan-sil” (2019), della regista Kim Cho-hee, già collaboratrice di Hong Sang-soo, una storia romantica con molto humour incentrata su una produttrice cinematografica costretta ad abbandonare il proprio lavoro e a fare la colf, che si innamora di un giovane dai gusti cinefili molto diversi dai suoi. “Alive” (2020) di Cho Il è uno zombie film giovanile spettacolare e dagli spunti intelligenti, con allusioni indirette alla pandemia di Covid in corso mentre veniva realizzato. Originale sia nella sceneggiatura che nella realizzazione è “Voice of Silence” (2020) di Hong Eui-jeong, la storia thriller-umoristica di due manovali della mafia alla prese con una bambina rapita. Interessanti anche i film di Cho Sung-kyu, con un suo stile particolare tra la commedia e il serio, soprattutto in “The Heaven is Open Only to the Single” (2012) e “Second Half” (2010).

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Winter’s Night, 2018

Segnalo infine due film incentrati direttamente su temi sociali e che secondo me sono di particolare valore. Il primo è “Cart” del 2014, diretto da Boo Ji-young, realizzato in crowdfunding e che ha avuto un insperato successo. Narra con toni volutamente da cinema popolare, ma in modo rigoroso, le lotte delle lavoratrici di un punto di vendita della grande distribuzione. Il secondo è “The Journals of Musan” (2013) di Park Jung-bum, un film asciutto ma a tutto tondo incentrato su un defettore nord-coreano che non riesce ad ambientarsi in una Seul allucinata, scontrandosi con lo sfruttamento e con la freddezza della gente locale.

Chiudo questa rassegna storica menzionando a parte due firme del cinema sud-coreano che, sebbene per motivi ben diversi, si collocano in prospettive del tutto particolari.

Uno dei migliori registi in assoluto della Corea del Sud di oggi è infatti… cinese. Si tratta di Zhang Lu, uno scrittore di Pechino stabilitosi in Corea, paese di cui ha fatto poi la propria patria cinematografica. La caratteristica di Zhang è quella di essere un “regista di frontiera”, laddove la frontiera è spesso fisica, ma a volte più interna, con giochi di personaggi nella maggior parte dei casi di nazionalità diversa e ambientazioni urbane o rurali decisamente originali. Segnalo in particolare “Dooman River” o “Tuman River” (2010), storia incentrata sui coreani del nord che scappano attraverso l’omonimo fiume gelato in Cina, in una zona popolata anch’essa da coreani della locale minoranza, “Scenery” (2013) documentario sugli immigrati asiatici a Seul,  “A Quiet Dream” (2016) divertente gioco di personaggi marginali in una Seul in bianco e nero, e il più recente “Fukuoka” (2019) storia stramba di una coppia coreana in trasferta nell’omonima città giapponese. Va notato che la generale sensibilità di Zhang per le tematiche “transfrontaliere” è affine a quella di altri registi odierni dell’Asia Orientale, come il giapponese Tomita Katsuya, il birmano-taiwanese Midi Z e l’okinawano Takamine Go.

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Fukuoka, 2019

Lascio per ultimo il caso di Im Kwon-taek, uno dei mostri sacri del cinema coreano, con oltre 100 film all’attivo e una carriera che va dagli anni ’70 fino a non molti anni fa. La maggior parte della sua opera è ambientata nel periodo pre-modernizzazione ed è orientata a una ricostruzione e un recupero della tradizione coreana. Im è tecnicamente molto capace e preciso nelle ricostruzioni storiche, ma i suoi film sono a volte freddi e troppo perfusi di umori nazionalisti sempre sull’orlo di una visione patriarcale. Il suo capolavoro è “Sopyonje” (1993), ricostruzione di grande impatto della tradizione narrativa e musicale del pansori, notevoli anche la leggenda tradizionale “Chunhyang” (2000) e “Strokes of Fires” storia di un pittore autodidatta di fine ‘800 (2002).

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Sopyonje, 1993

In chiusura solo due parole sui documentari. La produzione coreana è senz’altro ricca, ma riuscire a vedere documentari locali sottotitolati è un’impresa. Mi limito a citare, tra i pochi che ho avuto modo di visionare, “Factory Complex” (2015) di Im Heung-soon, sulla storia delle lavoratrici coreane e delle loro lotte dagli anni ’60-’70, raffrontate con le esperienze analoghe delle operaie cambogiane di oggi, e “Bad Movie” (1997) di Jang Sun-woo sugli adolescenti marginali di Seul.

COREA DEL NORD

Nota introduttiva: In Youtube è possibile trovare svariati dei film citati qui sotto in versione sottotitolata in inglese. Vi sono poi canali che offrono un’ampia scelta di film nord-coreani vecchi o più recenti, ma senza sottotitoli – chi è curioso di dare un’ampia occhiata alla visualità e ai suoni dei film del nord della penisola, pur senza comprenderne la trama, può visitare per esempio i canali Korean World e Korstar.

La produzione cinematografica della Corea del Nord ha un interesse essenzialmente di tipo “folcloristico”, visto il suo complessivo asservimento ai rigidi canoni di uno stalinismo di stampo ultranazionalista. Vi è tuttavia un numero limitato di film che si discostano di poco dalla produzione standard, alcuni dei quali disponibili in rete con sottotitoli in inglese. Innanzitutto il monster movie di culto “Pulgasari”, diretto dal già menzionato Shin Sang-ok fatto rapire a fine anni ’70 da Kim Jong Il, defunto padre dell’attuale dittatore Kim Jong Un. Kim Jong Il aveva il pallino del cinema, ha scritto un testo sull’argomento che nel paese è oggi una bibbia e si dice che avesse una collezione di 25.000 film. “O Youth” di Jon Jong Pal è una curiosa commedia del 1995, la storia ben poco “socialista” di un padre che ha 6 figlie da maritare, ma incontra difficoltà perché sono tutte muscolose sportive professioniste. “Our Fragrance” (2003, dello stesso regista) è un’altra commedia, particolarmente interessante perché mette in scena l’imbarazzo ideologico di fronte al consumismo conseguente alla diffusione nel paese di elementi di economia di mercato – una giovane coppia consumista si scontra con il nonno di lui più fedele alle tradizioni, e alla fine tutto si risolve in un ritorno al “nostro aroma” nazionale del titolo, non senza però avere messo in scena frigoriferi moderni e altri appetibili oggetti di consumo.

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Our Fragrance, 2003

Il film che i critici considerano in genere il meglio riuscito della cinematografia locale, “The Tale of Chun Hyang” del 1980, è tratto da un’antica leggenda coreana. Un’altra colonna portante del cinema nord-coreano è “Nation and Destiny”, colossal di spionaggio in 62 parti per un totale di circa 100 ore, uno dei pochissimi film del paese con ambientazioni estere e scene action. “Hong Kil Dong”, noto anche come “The Avenger with a Flute”, (1986) è invece un film di arti marziali che cerca di fare il verso alle pellicole di Hong Kong con elementi di spettacolarità.

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Nation and Destiny, Parte 2, 1992

Più interessante è analizzare i film, praticamente tutti documentari, sulla Corea del Nord. In genere tali film sono esposti a due problematiche: quella dell’inevitabile voyeurismo, vista la chiusura del paese, e quella degli aspetti etici, visto che spesso vengono riprese persone che possono finire per essere ritratte come burattini privi di umanità o subire pesanti conseguenze una volta che il film esce all’estero.

Un caso interessante, che non è esposto a queste problematiche, ma forse ad altre più genericamente politiche, è quello di “Moranbong” del 1958, esito del viaggio in Asia, con prolungata tappa a Pyongyang, di un gruppo di intellettuali comunisti francesi, alcuni dei quali poi diventati famosi, come Chris Marker (che una volta tornato ha pubblicato un libro di fotografie molto belle sulle donne nord-coreane, con un interessante testo di accompagnamento) e Claude Lanzmann, futuro regista del documentario-fiume “Shoah” sull’Olocausto. L’idea di girare in loco con cineasti nord-coreani un film di fiction “solidale” sull’esperienza della Guerra di Corea ha ovviamente dovuto scontrarsi con svariate problematiche sia in Corea del Nord che in Francia, dove il film per un bel po’ è stato vietato, ma i risultati sono interessanti sia nella forma che nei contenuti. Su tutta la storia è uscito recentemente un libro interessante in francese: Antoine Coppola, “Ciné-voyage en Corée du Nord. L’experience du film Moranbong”. Lanzmann, ormai anziano, ha diretto di recente un documentario memorialistico interessante per l’approccio umano nei confronti dei nord-coreani. Si tratta di “Napalm” (2017), incentrato su un suo breve ritorno a Pyongyang dove, all’epoca di “Moranbong”, aveva avuto una fulminante storia d’amore con una donna locale.

Moranbong

Moranbong, 1958

Un documentario noto che personalmente ho trovato pessimo, nonostante la buona fattura tecnica, è “Under the Sun” (2015) di un regista russo, Vitaliy Manskiy, molto apprezzato nel giro dei festival. L’approccio è saccente, con il regista nel ruolo di fatto di soggetto onniscente, e dal punto di vista etico è come minimo molto discutibile, visto che coinvolge nel suo approccio di denuncia operaie, insegnanti e perfino bambini, esponendoli a rischi. Molto originali e divertenti invece due film sotto diversi aspetti incredibili del regista danese Mads Brugger. Il primo “Red Chapel, aka Kim Jong-il’s Comedy Club” (2009) segue una mini-troupe composta dal regista stesso, un ragazzo autistico e un altro di origini coreane, che sono riusciti a realizzare spettacoli teatrali demenziali a Pyongyang (anche questo film però ha secondo me problematiche etiche). Altrettanto dissacrante è il secondo, “The Mole” (2020), prodotto dalla BBC e incentrato sulle vicende di un uomo ingaggiato dal regista che riesce a infiltrarsi per anni nella rete di traffici esteri del regime nord-coreano. La televisione franco-tedesca Arte da parte sua ha prodotto un documentario molto ben fatto sulla Corea del Nord del “capitalismo sui generis” introdotto nel paese da Kim Jong-un, privo di ideologismi superflui e decisamente interessante, disponibile anche in inglese: “Have Fun in Pyongyang” (2019).

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Red Chapel, 2009

I documentari più validi sulla Corea del Nord li hanno però girati coreani della diaspora o del Sud. Particolarmente interessante è “My Brothers and Sisters in the North” (2016) di Cho Sung-yung, una coreana emigrata in Germania. Sebbene limitata dagli inevitabili filtri posti dal regime (una delle famiglie che segue, per esempio, è una famiglia “bene” della capitale fedele al regime), Cho riesce a mettere in atto un approccio del tutto umano e realistico con i soggetti che filma, violando così con successo, cioè senza cadere affatto di rimando nell’apologia, i cliché dei documentari e della letteratura sulla Corea del Nord.

Di estremo interesse è il lungo documentario sud-coreano, “Repatriation” (2003) di Kim Dong-won (che tra l’altro ha girato altre pellicole sicuramente di valore, ma introvabili). E’ un lungo film che segue le storie di alcuni “irriducibili” nord-coreani, cioè spie (o presunte spie) incarcerate per decenni nella Corea del Sud sotto la dittatura e che hanno rifiutato di ottenere la libertà in cambio dell’abiura. Kim li segue nel periodo in cui sono stati liberati a fine pena, ma tra mille problemi non possono tornare al Nord. Alla fine vi torneranno tutti meno uno. Si tratta di una pellicola particolarmente ben fatta, sia tecnicamente che come approccio umano e politico.

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Our Homeland, 2012

Da non perdere due film, uno un documentario l’altro di fiction, della regista Yang Yong-hi. Yang è una “zainichi”, cioè una coreana che risiede in Giappone. Gli zainichi oggi sono circa 800.000, per la metà discendenti di lavoratori emigrati o deportati nel paese nel periodo 1920-1945 per lavorarvi, e ancora oggi vittime di un pesante razzismo. Per molto tempo non hanno avuto alcun passaporto, e la loro situazione rimane difficile anche nel nuovo millennio. Quasi tutti hanno radici nell’odierna Corea del Sud, ma la comunità è storicamente spaccata in due politicamente tra i filo-Seul e i filo-Pyongyang. Questi ultimi hanno un’organizzazione potente, Chongryon, che gestisce scuole, editoria ecc. e ha stretti legami con il regime nord-coreano. Negli anni ’60-‘70 (quando ancora la Corea del Nord era economicamente più forte di quella del Sud) decine di migliaia di zainichi sono “rimpatriati” nella Corea del Nord, senza immaginarsi a cosa andavano incontro, nell’ambito di una campagna politica condotta da Chongryon e dal Partito Comunista giapponese con l’avallo del governo di Tokyo, contento di sbarazzarsi di persone per lui scomode. La regista Yang è figlia di un dirigente storico di Chongryon e sorella di due “rimpatriati”, mandati giovanissimi dal padre a vivere in Corea del Nord. Il documentario “Dear Pyongyang” (2005) è un ritratto del padre della regista, intrecciato con la memoria dei due fratelli, che infine la regista va a trovare in Corea del Nord dopo decenni di separazione. E’ strutturato molto bene, asciutto ma commovente, e con una visualità inedita, non voyeuristica ma realistica, sulla Corea del Nord nella parte dedicata al viaggio. Il film di fiction “Our Homeland” (2012) si ispira ancora alla storia familiare della regista, anche se più liberamente. Nel film Sonho, uno dei fratelli “rimpatriati” decenni fa nella Corea del Nord, viene autorizzato a recarsi in Giappone per alcuni mesi al fine di curare un tumore al cervello, costantemente accompagnato da agenti del regime di Pyongyang. La storia si dipana tra sensi di colpa del padre, spaesamento del fratello e maturazione nella sorella di un forte risentimento nei confronti del regime nord-coreano. Il personaggio della sorella è tra l’altro interpretato da Sakura Ando, una delle migliori e più versatili attrici giapponesi di questo inizio millennio.