“Cari compagni” (Russia, 2020)

Con “Cari compagni”, il regista Andrey Konchalovskiy firma un’opera che relega i lavoratori in rivolta al ruolo di comparse impotenti, adottando alcuni abusati cliché del cinema hollywoodiano e di quello europeo “da festival”. Il risultato che ottiene, rafforzato da un approccio stilistico di impronta conservatrice, è quello di fare passare messaggi graditi all’oligarchia oggi al potere in Russia.

Un film ambientato durante la turbolenta rivolta operaia del 1962 a Novocerkassk, nella regione meridionale russa di Rostov che confina con il travagliato Donbass ucraino, poteva essere l’occasione per mettere in campo approcci cinematografici nuovi e stimolanti, o per mandare un messaggio politico autonomo rispetto ai poteri di oggi. “Cari compagni”, diretto da un classico vivente del cinema russo come Andrey Konchalovskiy, finisce invece per essere un prodotto apparentemente critico, ma in realtà del tutto ossequioso verso alcuni caposaldi estetici e ideologici oggi imperanti in Russia, e non solo in Russia. D’altronde cosa ci si poteva aspettare da un film finanziato per metà da due dei principali strumenti delle politiche culturali del regime di Putin, il Ministero della cultura della Federazione Russa e il Primo canale della televisione di stato? Ci troviamo infatti di fronte a una situazione paradossale che vede il regime guidato da un ex agente non pentito del Kgb come Vladimir Putin finanziare la produzione di un film su un massacro che lo stesso Kgb ha contribuito a organizzare. Il tutto con la ciliegina sulla torta finale dell’assegnazione a quest’opera cinematografica del prestigioso Premio speciale della giuria dell’ultimo festival di Venezia.

“Cari compagni” non è un film direttamente incentrato sugli operai che sono insorti a Novocerkassk tra l’1 e il 3 giugno 1962, ma la loro rivolta, terminata con il massacro di 26 manifestanti, vi svolge un ruolo portante e la pellicola di Konchalovskiy assume a proposito delle posizioni politiche, in alcuni casi esplicite, in altri più ammiccanti. Al centro della narrazione vi è la figura di Lyudmila, una funzionaria comunista di Novocerkassk dal carattere orgoglioso e duro, della quale il film segue il travaglio di fronte agli eventi spiazzanti che si trova ad affrontare nei giorni della rivolta. La donna è fedele alla linea del partito allora guidato da Nikita Chruscev, ma anche esplicitamente nostalgica di Stalin in un un’era che ufficialmente pretendeva di avere denunciato lo stalinismo e seppellito la sua eredità politica. Lyudmila ha una giovane figlia, Svetka, che partecipa alla rivolta operaia ed è in conflitto con la madre, così come lo è anche il padre di quest’ultima, un ex cosacco che odia i comunisti. Nella città scoppia improvvisamente una rivolta degli operai della grande fabbrica di locomotive a causa dell’aumento dei prezzi della carne e dei latticini a fronte di una diminuzione degli stipendi. Lyudmila si trova coinvolta in prima linea nelle riunioni dei vertici comunisti locali, e poi anche di quelle con i boss del partito giunti da Mosca per affrontare la crisi insieme a generali dell’esercito e funzionari del Kgb. Con il degenerare della situazione nelle strade arriva l’ordine personale di Chruschev di sparare sulla folla, ma un generale dell’esercito si oppone e i suoi soldati si limitano a sparare in aria. A uccidere molti lavoratori è invece un cecchino del Kgb, nascosto in una soffitta del comitato cittadino del Partito Comunista assediato dagli operai. Dopo il massacro viene fatta subito pulizia, sia con arresti che isolando ermeticamente ogni canale di comunicazione con la città, per tenere segreto quanto accaduto. Intanto Svetka risulta sparita nel corso degli eventi. La madre teme che sia una delle vittime del massacro e si mette alla sua ricerca con l’aiuto di un agente del Kgb dall’approccio molto umano.

Il film sprizza professionalità da tutti i pori: un bianco e nero fotografato in modo suggestivo, una sceneggiatura che fila via liscia senza intoppi, un montaggio pacato da classico hollywoodiano d’altri tempi, attori dalla recitazione sciolta e sicura e una ricostruzione precisa degli ambienti di mezzo secolo fa. L’unico neo in termini prettamente stilistici sembra essere l’eccessiva verbosità di alcuni snodi narrativi, in cui i protagonisti sono costretti a lunghi dialoghi la cui unica funzione è “spiegare” nei dettagli la situazione allo spettatore. La ricostruzione storica dei fatti essenziali è perlopiù precisa, fatta però eccezione per alcuni fondamentali e decisivi elementi. Il primo in ordine temporale è che il film descrive come unici motivi della rivolta l’aumento dei prezzi e la contemporanea diminuzione degli stipendi. In realtà, se questi due motivi avevano svolto senz’altro un ruolo di primo piano all’epoca dei fatti nell’alimentare la rabbia dei lavoratori, la causa scatenante è stata quella dell’ennesimo aumento delle norme di produttività, cioè del carico di lavoro da svolgere con tempistiche determinate. Un particolare rafforzato dalla constatazione che un analogo aumento aveva già provocato scioperi nella fabbrica la primavera precedente, ben prima degli aumenti dei prezzi di giugno. Ritengo che dietro questa omissione vi sia la volontà del regista e dei produttori di rendere l’aspro conflitto del 1962 relegabile a un ambito più vago e oggi politicamente accettabile come quello dei “diritti dei consumatori”, mentre le norme di produttività tengono il discorso saldamente ancorato alla fabbrica e alla classe operaia, qualcosa che evidentemente si è voluto evitare. L’impressione è rafforzata dal linguaggio in alcuni momenti del tutto irrealistico per l’Unione Sovietica dell’epoca, e caratteristico invece dell’oggi, che viene utilizzato rispettivamente da Svetka (“Viviamo in una democrazia. Abbiamo la libertà di riunirci e protestare”) e da un alto funzionario del Kgb che parla “diritto costituzionale”.

Locandina Cari compagni

Locandina originale del film

E’ poi una mistificazione, e di portata decisiva, che a sparare sulla folla siano stati cecchini del Kgb e non l’esercito come mostra il film. Una forzatura che ricorda i teoremi sui cecchini a Maidan del 2014, una delle tante teorie cospirative che consentono di manipolare a piacere la storia per usi contingenti. E’ vero che il generale Pliev, così come descritto nel film, si oppose in un primo momento alla decisione di mandare soldati armati contro la folla, ed è anche vero che un altro generale dell’esercito, come invece non mostra il film, coraggiosamente disobbedì nel concreto all’ordine di sparare sugli operai perché per lui non erano un nemico e per questo finì arrestato. Ma è altrettanto vero che Pliev dopo i primi tentennamenti adempì scrupolosamente gli ordini e nei giorni successivi guidò le operazioni di repressione che “pacificarono” Novocerkassk, tutte cose che la pellicola di Konchalovskiy non ci racconta. La teoria esplicita del film, non corrispondente ai fatti documentati, è che la colpa venne ingiustamente addossata all’esercito su iniziativa del Kgb. L’esercito sovietico diventa così non l’aguzzino, ma addirittura un eroe difatto, un’istituzione patriottica e “buona”, a differenza dei burocrati comunisti chrusceviani. Non dimentichiamo che si trattava invece dello stesso esercito che solo 6 anni prima delle vicende descritte nel film invadeva l’Ungheria facendo strage degli insorti locali, e 6 anni dopo ripeteva l’impresa in Cecoslovacchia. Come se non bastasse, però, nemmeno il Kgb esce così male dal film: se il ritratto dei burocrati di partito è spietato, come è giusto, gli uomini del Kgb appaiono sì cinici e crudeli, ma tutto sommato razionali e capaci di comprensione verso i motivi degli insorti. E, soprattutto, c’è l’umanissimo agente Viktor, l’eroe che aiuta Lyudmila a cercare la figlia, una figura che a modo suo sdogana l’immagine di un Kgb altro e positivo. Inoltre, come ha giustamente constatato un critico del quotidiano “Kommersant”, nel film la condanna del Partito comunista di Chruscev è netta, mentre nel complesso si respira un’aria assolutoria, o perlomeno nostalgica, nei confronti dell’era di Stalin, durante la quale vi era ordine e “i prezzi diminuivano”. Si tratta di un atteggiamento tipico dell’attuale regime russo e un’adesione di quest’opera di Konchalovskiy alla confusa ideologia dello stesso la si riscontra, su un altro piano, anche nella figura del padre di Lyudmila, una specie di capostipite anticomunista che parla affiancato da un’icona ortodossa in bella vista e col petto decorato da nastri di San Giorgio, simbolo prima zarista, poi stalinista e infine adottato in anni recenti dai neofascisti del Donbass.

Ma soprattutto il film fornisce una visione addomesticata dei lavoratori, facendone manifestanti quasi per bene, che tutt’al più tirano un paio di sassi ai funzionari comunisti locali o spaccano la vetrina di un armadio quando penetrano nella loro sede. La verità di quei giorni è stata invece quella di una massa di lavoratori infuriati, in buona parte uomini usciti da poco di galera e reclutati a svolgere un lavoro duro per quattro soldi, molti dei quali in costante stato di ubriachezza durante la rivolta. Uomini e donne che hanno bloccato e assaltato un treno, attaccato una stazione di polizia per saccheggiarne le armi e ingaggiato un corpo a corpo con i soldati in strada perseguendo il medesimo obiettivo. Operai che quando hanno assaltato la sede cittadina del Partito Comunista non si sono limitati a spaccare un paio di vetri, ma hanno preso sonoramente a botte funzionari e poliziotti. Ma erano anche lavoratori sufficientemente coscienti di sé da cercare e ottenere la solidarietà di altre fabbriche della città, o di puntare alla locale stazione di distribuzione del gas per bloccarne l’erogazione, fermando così gli stabilimenti di tutta la regione e mandare ai loro fratelli un messaggio che erano impossibilitati a inviare a causa del blocco delle comunicazioni. L’unica rappresentante di questi lavoratori che vediamo come soggetto che parla e agisce coscientemente è Svetka, la figlia di Lyudmila, un’alquanto improbabile dipendente acqua e sapone e dal gergo liberal di una fabbrica in realtà popolata essenzialmente di lavoratori e lavoratrici emarginati e con un recente passato di crimine. Per il resto, in “Cari compagni” i lavoratori sembrano un po’ come gli indiani nei vecchi film western di Hollywood: il loro ruolo è quello di agitarsi un po’ senza senno, per poi cadere come birilli sotto i colpi dei fucili. E non è reale nemmeno che Novocerkassk sia stata subito pacificata con tanto di spettacolino musicale in piazza la sera del 2 giugno stesso, senza alcuna resistenza operaia, come ci dice il film. Il 3, giorno successivo all’eccidio, erano infatti ancora tanti quelli che manifestavano e scioperavano nonostante il rischio di venire ammazzati, e gli arresti sono proseguiti per giorni. Quella di dipingere gli insorti come persone di poco senno e in ultimo capaci solo di farsi ammazzare non è una peculiarità esclusiva di “Cari compagni”. Lo stesso approccio lo si riscontra in altri film degli ultimi anni, come per esempio in “A Taxi Driver”, una produzione sud-coreana del 2017 diretta da Jang Hun che ha ottenuto grande successo in patria e si è guadagnata ampi apprezzamenti nei festival. Nel caso di “A Taxi Driver” il massacro descritto è quello messo in atto nel 1980 dalla dittatura anticomunista sostenuta dagli Usa per porre fine, con centinaia e forse migliaia di morti, all’eroica insurrezione dell’intera città di Gwangju che era riuscita ad autogovernarsi per alcuni giorni. Anche in questo film, dai toni melodrammatici, gli insorti vengono visti dal fuori, più precisamente con gli occhi di un fotografo tedesco, il vero eroe coraggioso della narrazione, e dipinti come persone magari simpatiche ma poco furbe, e in ultimo, ridotti anche loro al ruolo di indiani bravi solo a farsi ammazzare senza opporsi, mentre la realtà di Gwangju era stata quello di un altissimo grado di autorganizzazione popolare e di un’ampia fetta di insorti che si è difesa armi alla mano.

In ultimo il film di Konchalovskiy è un film che strizza l’occhiolino ai festival, ottenendo non a caso un prestigioso premio, con un tema impegnato e in apparenza con un approccio di denuncia. Ma quest’ultima è del tutto parziale e prende come bersaglio solo una parte dei responsabili, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica chrusceviana, portando invece sul palmo di mano un esercito criminale e proponendo un Kgb in parte dal volto umano. “Cari compagni” rende un ulteriore servizio ai propri committenti dipingendo i lavoratori come massa amorfa, priva di una propria lingua e incapace di agire con coscienza di sé. Konchalosvkiy fa tutto questo mettendo in scena un’opera cinematografica profondamente conservatrice anche nello stile. I film sono opere d’arte, non libri di storia, ed è del tutto lecito prendersi libertà, ivi compreso mettendo in secondo piano aspetti altrimenti essenziali da un punto di vista storico. Ma alla fine quello che si decide di tenere o invece di eliminare, oppure di alterare, è comunque frutto di precise scelte che hanno il loro peso, indipendentemente dal fatto che siano di natura principalmente estetica o politica. Konchalovskiy propone con il suo film una chiave di lettura esplicitamente politica che non riguarda solo il passato sovietico, ma è rapportabile anche all’oggi della Russia e, più in generale, di un periodo di grandi mobilitazioni popolari in tutto il mondo. Per una coincidenza la sua uscita nelle sale è coincisa con lo scoppio in Bielorussia, ex repubblica sovietica, di un grande movimento di protesta che ha visto un’ampia partecipazione operaia. Un classico esempio di come spesso la realtà possa superare la finzione filmica, soprattutto quando quest’ultima si pretende realistica e critica senza esserlo.