Wuhan nel cinema cinese: una città noir e ribelle

Un capitolo del libro “La Cina, il virus e il mondo” di Andrea Ferrario, (l’intero ebook è liberamente scaricabile qui) in cui si ricostruisce l’immagine cinematografica di Wuhan, la città dalla quale è partita l’epidemia di Covid-19, attraverso sette film cinesi dell’ultimo ventennio. Una città d’acqua che si rivela lo sfondo ideale per i film neonoir e che, pochi lo sanno, è la capitale del punk cinese, come narra un ottimo documentario.

Sconosciuta ai più al di fuori della Cina fino al 2019, nonostante i suoi oltre 10 milioni di abitanti e il ruolo importante che svolge nell’economia globale, Wuhan è diventata all’improvviso all’inizio del 2020 una delle città più seguite e nominate nel mondo in quanto punto di partenza di quella che sarebbe poi diventata una pandemia senza precedenti nell’epoca moderna. In particolare da fine gennaio 2020, e per alcune settimane, filmati della città sono entrati nelle case di tutto il mondo attraverso i reportage televisivi. L’immagine urbana che Wuhan ha dato di sé nei servizi televisivi di quelle drammatiche settimane, alternata a rare scene rubate dalle telecamere degli smartphone all’interno di ospedali, è figlia principalmente delle tecniche di ripresa a volo d’uccello mediante drone. Queste ultime, limitate sempre alle zone centrali più ricche e rappresentative della città, hanno finito per imporre un profilo fatto esclusivamente di moderni grattacieli, altrettanto moderni cavalcavia e ampie strade piene di luce anche di notte grazie alla potenza dei sistemi di illuminazione, un profilo spesso completato da viste dall’alto del grande fiume Yangtse attraversato da ponti che testimoniano l’arditezza ingegneristica della nuova Cina (un profilo che viene riassunto con grande efficacia in poco meno di 5 minuti dal video di “Wuhan 2020”, un brano del gruppo cinese Hardcore Raver in Tears). Si tratta fondamentalmente dell’immagine luccicante che un po’ ovunque nel paese le autorità vogliono dare delle città cinesi, omettendo dal repertorio visuale i vicoli scuri e tortuosi che sfuggono alla disciplina urbana a cui mira il regime o i quartieri periferici più poveri dove un popolo non vestito alla moda, magari addirittura a passeggio in pigiama (una delle tante piacevoli abitudini vietate recentemente dal governo per motivi di decoro), vive una vita che smentisce quotidianamente il roseo “sogno cinese” propagandato da un regime che ha le sue basi in un neocapitalismo sfrenato, ma è guidato da un partito che ancora si definisce “comunista”.

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Il modo in cui Wuhan è stata dipinta nell’ultimo paio di decenni dal cinema cinese meno commerciale, forte di una tradizione vicina a quella neorealistica italiana e spesso ispirata al documentarismo, è del tutto opposto: dominano i toni oscuri, le prospettive non sono quelle rassicuranti a volo d’uccello, espressione il più delle volte di un potere trascendente, bensì quelle ad angolo stretto imposte dal movimento in vicoli stretti o cortili angusti, tra case povere e spesso degradate. L’acqua non è più solo quella maestosa trasportata da uno scenico Yangtse ripreso dall’alto, ma anche quella torbida e stagnante dei numerosi laghi che popolano la città, oppure quella di una pioggia tanto insistente quanto deprimente. Spesso Wuhan, con la sua posizione di “centro del centro” della Cina e il suo ruolo di snodo imprescindibile della rete di trasporti nazionale, si ritrova a svolgere nei film il ruolo effimero di città di passaggio, o di breve tappa lungo tragitti che toccano aree ben più ampie. E’ il caso per esempio di “Hooligan Sparrow”, documentario del 2016 diretto da Wang Nanfu, che segue le peregrinazioni di Ye Haiyan, una femminista ed ex lavoratrice sessuale originaria di Wuhan, città dalla quale viene presto espulsa e costretta a una lunga anabasi a causa della sua lotta a sostegno di bambine vittime di molestie sessuali da parte del dirigente di una scuola. Nelle poche riprese esterne della città, Wuhan è soleggiata, ma a questa luce fa da contrasto il “buio politico” della polizia segreta che tiene costantemente sotto sorveglianza l’attivista. Molto diversa è l’atmosfera di Wuhan dipinta a rapidi tratti in uno dei più interessanti film di Lou Ye, tra i maggiori registi della cosiddetta “sesta generazione”. Si tratta di “Summer Palace” (titolo originale “Yi He Yuan”, 2006), un altro film nel quale la città è presente solo di passaggio come snodo importante di una trama che si dipana da Tuman, al confine con la Corea del Nord, fino a Pechino, Shenzhen, Wuhan, Chongqing e perfino Berlino. La giovane protagonista Yu Hong abbandona Pechino dopo il massacro di Tiananmen del 1989 e, dopo essere tornata per alcuni anni alla città natale e avere poi abitato a Shenzhen, si trasferisce infine nella capitale dello Hubei. In questo film Wuhan è una città cupa, buia, fatta di confusione e incertezza esistenziale dopo gli anni indimenticabili passati all’Università di Pechino prima di Tiananmen. Le immagini dei vicoli e degli interni dimessi della città cinese si alternano con riprese della periferia altrettanto grigia di Berlino, dove è emigrato l’ex amante di Yu Hong insieme alla sua migliore amica, un nesso “globale”, che non sembra però aprire alcuna prospettiva di un futuro migliore.

I film che dedicano più attenzione alla fitta presenza dell’acqua a Wuhan, città disseminata da qualche decina di laghi e attraversata da due fiumi, sembrano dividersi in due partiti opposti, quello delle pellicole che danno ampio spazio al grande fiume Yangtse e al suo confluente Han, ignorando completamente i laghi, e quelli che all’opposto si concentrano esclusivamente su questi ultimi, e in particolare sul grande Lago Orientale. Milita nel primo partito il noir-melodrammatico “Luxury Car”, del 2006 (titolo originale “Jiang cheng xia ri”, regia di Wang Chao), la storia di una prostituta, Yanhong, che vive a Wuhan e del padre che si trasferisce da lei in città per cercare il figlio scomparso, senza essere a conoscenza della reale professione della figlia. L’intreccio si tinge poi di poliziesco, ma il film non ha una sufficiente presa né in termini di noir né in termini di melodramma. In compenso le immagini di Wuhan sono di forte impatto e la pellicola si apre quasi programmaticamente con una ripresa effettuata da una telecamera posta su un’imbarcazione che scende lungo le acque dello Yangtse in una città dal cielo reso grigio dalla foschia. Ed è proprio in un molo sul fiume che il padre di Yanhong sbarca a Wuhan. La città è di nuovo un luogo cupo, in cui al grigio della foschia popolata dagli alti edifici frutto della speculazione edilizia, si alterna solo l’oscurità notturna popolata da prostitute e delinquenti. Nessun rapporto stabile o sincero sembra possibile in questa metropoli moderna, ma opaca e soffocante.

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Più elaborato visivamente e in termini di narrazione è l’altro film ambientato a Wuhan che, come “Luxury Car” esclude dal suo panorama i laghi e si concentra solo sui fiumi. Si tratta di “So Close to Paradise”, del 1998 (titolo originale “Biandan, guniang”), diretto da un regista cinese di primo piano come Wang Xiaoshuai, anch’egli esponente della “sesta generazione” come Lou Ye. Qui al centro della storia c’è una cantante di night club vietnamita, Ruang Hong, una giovane femme fatale bramata da più uomini, a partire da Gao Ping e Dong Zi, entrambi lavoratori immigrati a Wuhan dalla Cina rurale, il primo anche piccolo gangster, il secondo schivo e taciturno. Ruang viene violentata da Gao, e poi ne diviene la compagna, ma una storia di furti e violenze rivela la presenza di un altro uomo di Ruang, un boss che sconvolgerà in modo tragico la vita sia della ragazza che dei due migranti. Il film è del 1998 ed è uscito in Cina solo nel 2004 a causa di problemi di censura, ma la narrazione è ambientata nella Wuhan dell’inizio degli anni ’80, agli albori del neocapitalismo cinese. La differenza con la Wuhan di oggi, e in particolare quella tutta luccicante e moderna dipinta dalla propaganda del regime, è enorme. Essendo già nel 1998 impossibile trovare ampi scorci di una città uguale a quella di una sola quindicina di anni prima, il regista Wang ricorre a riprese ad angolo stretto, o comunque avvolte nella foschia, un elemento della realtà wuhanese sul quale molti film pongono l’accento. Alquanto suggestiva e simbolica è la misera abitazione di Gao e Dong, per arrivare alla quale bisogna arrampicarsi lungo un piccolo colle e che guarda sulla confluenza del fiume Han nello Yangtse. Come “Luxury Car”, anche “So Close to Paradise” si apre sullo Yangtse, ma non con le riprese morbide da un’imbarcazione che segue il flusso dell’acqua come nel primo, bensì con le immagini ruvide di una rissa sulla riva desolata, sporca e nebbiosa dello Yangtse, anticipando così l’atmosfera dell’intero film che, privo di un sottofondo moralista come quello della pellicola di Wang Chao, è molto più efficace e realistico nel dipingere l’asprezza della vita urbana nel capitalismo cinese post-Mao.

Altri due film più recenti ambientati a Wuhan trascurano invece le aree più pittoresche con vista sullo Yangtse e si concentrano sugli ambienti lacustri che distinguono la capitale dello Hubei dalle altre grandi città cinesi. Una di queste due pellicole, “Li Wen at East Lake” (“Li Wen man you Dong Hu”, regia di Li Luo, 2015), è particolarmente difficile da catalogare in termini di genere, sospesa come è tra il documentario di denuncia, il mistery e il grottesco (in italiano si può leggere questa intervista con il regista Li Luo, che conosce a fondo Wuhan perché natovi e residentevi). L’aspetto documentaristico è rafforzato dal fatto che il protagonista, il poliziotto Li Wen, è interpretato dall’attore non professionista Li Wen, un aspetto che accentua ulteriormente l’ambiguità del confine tra documentario e fiction. Al centro della pellicola vi è in particolare il tema della speculazione edilizia che ruba sempre più spazio al Lago Orientale e lo snatura assediandolo con un’ondata di cemento, incontrando la resistenza di alcuni e la rassegnazione invece di altri. Ma ci sono anche altri elementi centrali, come la ricerca da parte della polizia di un folle che va diffondendo la voce secondo cui nel lago ci sarebbe un mostro, una collezione di foto del periodo della Rivoluzione culturale o le discussioni sulle differenze di genere. Si tratta di un’opera originale e complessa, non sempre facile da seguire. Tra i momenti politicamente più efficaci va citata la scena della parte iniziale, quasi interamente a inquadratura fissa, che riprende uno spettacolo organizzato per i (pochi) turisti con il quale viene rappresentata, in un villaggio d’epoca ricreato in stile Disneyland, una battaglia del periodo anticoloniale: un rimando al fatto che le lotte autentiche non sono più possibili in una Cina in cui la politica si è ridotta a un triste rituale sceneggiato dal principio alla fine dal Partito Comunista. Ma il personaggio principale del film è in ultimo il Lago Orientale stesso, con il suo ruolo di vittima di un sistema speculativo cinico, ma anche di luogo della memoria, di rifugio per un mondo popolare sempre più emarginato dai padroni del denaro, ma ancora reale e ineludibile.

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L’altro film “lacustre” ambientato a Wuhan è “The Wild Goose Lake” (titolo originale “Nan fang che zhan de ju hui”) diretto da uno dei più apprezzati registi e attori cinesi contemporanei, Diao Yinan. La prima mondiale di questo film a Cannes nel 2019 ha preceduto solo di mezzo anno i disastri causati nella città e nel mondo dal nuovo coronavirus. Anche questo film assegna un ruolo preminente al Lago Orientale, nonostante il titolo possa trarre in inganno (una delle quattro grandi aree differenti che compongono il lago e recano ciascuna il nome di un animale, e che tra tutte è quella dalle rive più frastagliate, si chiama infatti “luoyan”, cioè  “oca selvatica”, in inglese “wild goose”). Il film è un noir nel più autentico senso della parola, essendo ambientato in una Wuhan umida e notturna, piena di ombre e nella quale, dopo un gioco a incastro iniziale di flashback, si intrecciano trame criminali così tetre da non lasciare intravvedere nemmeno un bagliore di luce e speranza all’orizzonte. Il protagonista, Zhou, è ricercato da poliziotti e membri di varie gang dopo che su di lui è stata posta una taglia in seguito a un conflitto cruento scoppiato nel mondo del traffico di moto rubate. Zhou vorrebbe soprattutto incontrare la moglie, ma finisce per trovare un rifugio sulle rive del Lago Orientale insieme alla prostituta Liu Aiai, inviata dal gruppo criminale di cui Zhou fa parte con l’incarico di assisterlo nella fuga. Inutile dirlo, il finale è cupissimo. Con questo film Wuhan si conferma un’altra volta come set ideale per il cinema neonoir, così come era già stato in “Luxury Car” e ancora di più con “So Close to Paradise”. Il tema della prostituta o mantenuta ricorre in tutte tre le pellicole, così come in tutte tre c’è un uomo costretto alla fuga che va incontro a un destino tragico. L’avvio del film sembra tratto da un manuale di cinema noir: un uomo di cui non sappiamo nulla attende fuori da una stazione, nell’ombra della notte, una donna misteriosa. Ma il film non è banale, grazie anche all’eccellente lavoro di Diao sul gioco tra oscurità e colori. Quasi tutte le scene sono girate nella città notturna e la luce diretta del sole la si vede solo quando sono in corso operazioni della polizia, di sicuro un particolare non casuale. Il lago, con la sua superficie piatta e immobile, che non genera alcun effetto scenico perché ripreso di notte, o con angoli visuali poco ampi da una spiaggia popolare, è un altro elemento fondamentale del film, nell’ambito del quale costituisce il luogo di una precaria tranquillità prima della tragedia. Molto forte è poi l’impatto nella parte finale delle riprese nei vicoli di una Wuhan fatiscente, povera e disperata. Numerosi critici hanno rimproverato a Diao Yinan di avere rinunciato agli espliciti elementi di denuncia sociale dei suoi precedenti film, ma come sarebbe possibile portarli avanti in una Cina oggi sempre più immersa nella censura e nelle repressioni? Con quella che è un’evidente scelta di prudenza politica Diao ha deciso di ambientare la sua pellicola cupa e pessimista non nella Wuhan di oggi, ma in quella del 2012, cioè immediatamente prima dell’entrata in carica di Xi. Un altro dei più noti registi cinesi, Lou Ye ha portato anch’egli un film neonoir nelle sale l’anno scorso. Si tratta di “The Shadow Play” (“Feng Zhong You Duo Yu Zuo De Yun”), ambientato tuttavia a Canton e che in termini stilistici osa molto di più di “The Wild Goose Lake”. Che due dei maggiori registi del paese siano usciti l’anno scorso con film nerissimi non mi sembra un caso. Un altro importante regista, Jia Zhangke, tra tutti il più noto e apprezzato all’estero, ma anche il più disponibile a giungere a compromessi con i dettami politici del regime, era uscito a Cannes nel 2018 con un film molto più solare in termini di luci, eppure nostalgico e venato di una grande tristezza (“Ash is Purest White”, titolo originale “Jiang hu er nü”), ambientato principalmente nella città di Datong, ma con un importante capitolo nella provincia dello Hubei, di cui Wuhan è capitale. Verso la fine di questo film fa capolino, in forma metaforica, il “sogno cinese” di Xi Jinping e addirittura anche un trattamento fiabesco del tema dello Xinjiang, sicuramente molto apprezzato dal regime, ma del tutto inopportuno nel momento in cui nella provincia si stanno compiendo crimini orrendi. I due noir “apolitici” di Diao Yinan e Lou Ye (che tuttavia nel suo film accenna a una denuncia della speculazione edilizia-finanziaria) offrono con le loro scelte estetiche e narrative, criticate da alcuni come “vuote”, uno stimolo critico politicamente molto più incisivo della denuncia moralista del materialismo di oggi implicita in “Ash is Purest White”.

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Un film che non gira attorno ai temi politici, ma li affronta direttamente mettendoli con precisione nel loro contesto urbano e culturale prettamente wuhanese, è il documentario “Never Release My Fist” di Wang Shuibo, uscito nel 2015, appena prima che alla fine dello stesso anno la censura e le repressioni facessero un ennesimo salto di qualità. La pellicola descrive la storia della scena punk wuhanese senza fronzoli, e anche senza peli sulla lingua, seguendo come filo conduttore la storia del suo principale esponente, Wu Wei, cantante e bassista degli SMZB (sheng-ming zhi bing, “il pane della vita”), una band locale ormai leggendaria in tutta la Cina e che ha pubblicato il suo primo album su cassetta nel 1999. Quella del punk wuhanese è una storia molto interessante, narrata recentemente nei dettagli in un articolo di Nathanel Amar su Radiichina, nel quale si trovano anche molti link che consentono di vedere/ascoltare brani degli SMZB e di altre band locali, ivi inclusi link all’intero leggendario concerto del Natale 2011 e a buona parte dello stesso documentario “Never Release My Fist”. I gruppi punk di Wuhan hanno quasi tutti un retroterra proletario, a differenza di quelli di Pechino, che sono invece più sofisticati e legati al giro delle università. Ciò ha fatto sì che la musica punk di Wuhan fosse sempre più politicizzata di quella della capitale nazionale. Gli SMZB e Wu Wei in particolare ne sono il più eloquente esempio, con i loro testi che invitano alla ribellione, sociale e politica. I commenti di Wu dal palco, alcuni riportati nel documentario, arrivano a volte addirittura all’impensabile, cioè a criticare il Partito Comunista cinese nominandolo esplicitamente. Nei loro testi, come quello di “Wuhan Prison” o dell’inno “Wuhan! Wuhan!”, la città è, per l’appunto, una prigione da “rivoltare”, perché ci sono “troppe fottute regole, ma io me ne frego”, “Voglio cambiare questa città / perché appartiene a te e a me / Sarà bella / otterrà la libertà […] Ecco una città punk, Wuhan! / Cantiamo questa canzone per te, Wuhan! Cominciamo a ribellarci e a lottare a Wuhan!…”. Anche altre canzoni sono molto esplicite: “Non smettere di urlare, quando hai cominciato a urlare per le masse silenziose / Non smettere di ribellarti, quando hai cominciato a ribellarti per le masse silenziose / Urla per la vita, urla per il diritto / Urla per la verità e la fede / Non abbandoneremo mai / quello per cui stiamo lottando / Non cesseremo di cantare”. L’impegno politico dei punk wuhanesi è testimoniato anche dalla partecipazione di molti di loro alle lotte per proteggere il Lago Orientale dai progetti di cementificazione, tanto da meritare a Wu Wei e a un’altra figura leggendaria del punk locale, Mai Dian, anche una presenza nel film “Li Wen at East Lake”, che ho esaminato sopra. Il documentario “Never Release My Fist” segue nell’essenza la storia di Wu Wei, tracciandone un ritratto molto umano e per nulla eroico, la storia semplice di un ragazzo povero con la voglia di emergere, ma senza vendersi e scendere a compromessi. Una storia che è anche la storia comune di tanti giovani, uomini e donne, che hanno scelto la stessa strada dando vita alla composita scena punk di Wuhan. La città che il documentario dipinge con molta efficacia è ancora una volta una città popolare, dai muri scrostati, povera ma viva e nei cui bar o sale da concerto improvvisate si può trovare qualche momento di libertà. L’unica scena del film che riprende un’immagine di Wuhan più vicina all’icona classica amata dal regime, quella di un panorama di grattacieli attraversato da un maestoso Yangtse, viene stravolta dall’accompagnamento musicale di una ballata molto triste degli SMZB che descrive con varie metafore il clima di repressioni generalizzate che soffoca il paese. Proprio nel momento in cui chiudo questo testo gli SMZB hanno pubblicato il video di un brano del loro nuovo album, che dovrebbe uscire entro la fine dell’anno. A fine gennaio 2020 Wu Wei aveva mandato un messaggio ai fan del gruppo, rassicurandoli che tutti i membri degli SMZB stavano bene e che la band stava preparando un nuovo album con un brano a sostegno delle lotte a Hong Kong, alle quali Wu esprimeva tutto il proprio sostegno. Visto quanto accaduto nel frattempo, mi sembra molto improbabile che il brano esca ufficialmente.

Come abbiamo visto, il cinema indipendente cinese, o forse sarebbe più giusto dire semi-indipendente, ha radicalmente e costantemente boicottato la visualità che il regime da anni cerca di imporre riguardo a Wuhan e alla Cina in genere. Una visualità fatta di grandeur, di dimostrazione di potenza ingegneristica e di stabilità sociale, ma anche di anonimità consumistica e di adesione ai luoghi comuni del capitalismo globale. I film di cui ho qui scritto, per quanto alcuni di essi siano recentissimi in termini di uscita nei festival o nelle sale, appartengono però probabilmente a un’epoca ormai chiusa: si tratta di progetti ideati e varati prima delle grandi repressioni della seconda metà del 2018 e del 2019, oggi fattesi ormai totali con la scusa dell’emergenza Covid-19 e con il soffocamento delle libertà di Hong Kong. Probabilmente, finché non ci saranno nel paese radicali cambiamenti, un cinema come quello che abbiamo qui sopra passato in rassegna non sarà più possibile, o nell’ipotesi più ottimista si farà ancora più raro. Il regime forse consentirà qualche limitatissima libertà ai nomi più prestigiosi e pronti a scendere a compromessi, come Jia Zhangke, nel tentativo di darsi un’immagine di magnanimità all’estero e magari di vincere qualche premio da sventolare in patria come simbolo di un dubbio prestigio internazionale. La paura per me personalmente forse più grande è che nelle teste dei produttori cinese circoli l’idea di produrre qualche blockbuster popolar-nazionalista sulla “grande vittoria” ottenuta dal Partito contro il virus, idea che se realizzata segnerebbe la definitiva polpettonizzazione del cinema cinese. La storia di quest’ultimo però è così ricca, anche e soprattutto in termini di libertà espressiva, capacità di lotta e voglia di denuncia, che sarà impossibile ridurlo per lungo tempo alla servile banalità.