Zombie, dittatori e chaebol

Il cinema popolare coreano è ricchissimo di pulsioni politiche più o meno occulte. Questo saggio analizza sei film recenti rivolti a un pubblico di massa, dai blockbuster “Train to Busan” e “Veteran” fino alla produzione indipedente “Cart”, mettendo in luce la ricorrenza di temi come il conflitto di classe o i traumi storici irrisolti.

Nel corso della sua storia la Corea ha vissuto numerosi eventi traumatici che hanno lasciato un segno indelebile non solo nella memoria collettiva dei suoi abitanti, ma anche nel suo cinema. Dopo la conquista dell’indipendenza nel 1905 la penisola è stata in brevissimo tempo colonizzata dal Giappone, il cui dominio è stato sempre improntato a un paternalismo di stampo razzista che considerava i coreani come esseri di livello inferiore. Un paternalismo che a partire dagli anni trenta ha acquisito sempre di più caratteristiche di brutale sfruttamento e crudele repressione, accompagnati da deportazioni di massa. Riconquistata l’indipendenza nel 1945, la Corea ha vissuto nel giro di pochi anni la divisione tra Nord e Sud e una devastante guerra, nella quale hanno svolto un ruolo primario le politiche imperialistiche degli Usa e dell’Urss. Il paese e i suoi maggiori centri urbani sono stati praticamente rasi al suolo e la Corea è scampata per poco a un bombardamento atomico degli Usa. La guerra ha lasciato in eredità nel nord un regime spietato e paranoico e nel sud una dittatura di estrema destra particolarmente crudele nelle sue repressioni (stragi di massa e uso sistematico della tortura), accompagnata da un colonialismo di fatto, questa volta a guida non più giapponese, ma Usa. Così come durante l’era del colonialismo giapponese milioni di donne coreane erano state costrette al lavoro sessuale forzato, nel corso dell’epoca del colonialismo statunitense altrettante donne, ridotte in povertà, sono state costrette a prostituirsi per i nuovi padroni. Gli altri traumi sono di natura principalmente economica. Tra gli anni ’70 e gli anni ’90 del secolo scorso la Corea del Sud ha vissuto un periodo di crescita la cui rapidità non ha praticamente pari nella storia mondiale moderna e che ha comportato un’urbanizzazione di massa a ritmi da capogiro, condizioni di lavoro orrende e repressione sistematica di ogni rivendicazione di diritti. Nel 1997-1998 il paese è stato uno dei più colpiti dalla crisi asiatica, che ha portato a un umiliante accordo di salvataggio con il Fondo Monetario Internazionale e che per molti nuclei familiari ha comportato la perdita dei risparmi di un’intera vita. Un fantasma che si è riaffacciato di nuovo sulla Corea del Sud a partire dalla crisi mondiale iniziata nel 2008, con una massiccia precarizzazione dei lavoratori e in particolare di quelli più giovani. Va ricordata infine un’altra pagina della storia nazionale, che è al contempo di natura traumatica ed esempio positivo della capacità dei coreani di attivarsi collettivamente dal basso per la democrazia: quella delle mobilitazioni di massa del 1960, che hanno portato a un breve periodo di democratizzazione, seguite da quelle degli anni ’80, che nel giro di un decennio hanno causato la caduta della dittatura nella Corea del Sud. Rimane in particolare impressa nella memoria popolare l’insurrezione dell’intera città di Gwangju nel maggio 1980, repressa nel sangue dalla dittatura con una strage di enormi proporzioni, ma che ha aperto la via alla caduta del regime di estrema destra.

Tutti questi sviluppi hanno esercitato un influsso decisivo sul cinema della Corea del Sud (e in modo ben diverso anche su quello della Corea del Nord, del quale tuttavia qui non ci occupiamo). In primo luogo il genere del melodramma è stato a partire dagli anni ’50 del secolo scorso e per oltre due decenni il genere più frequentato dalla produzione cinematografica della Corea del Sud, grazie alla sua capacità di dare voce a tali profondi traumi collettivi sfuggendo allo stesso tempo alle maglie della censura della dittatura. Oggi non è più il genere maggiormente di successo nel paese, ma gli elementi melodrammatici sono costantemente presenti negli altri generi più popolari. Va riscontrato inoltre un tema che da allora e fino a oggi ritorna costantemente nella produzione cinematografica del paese, quello della “smascolinazione” (“demasculinization”), cioè la presenza di personaggi maschili contrassegnati dall’impotenza e oggetto di umiliazioni, il più delle volte padri di famiglia o mariti: un’eredità attribuibile, tra gli altri, al colonialismo giapponese, ma anche ai disastri della guerra e alla colonizzazione di fatto da parte degli Usa dopo di essa. Un altro tema centrale è quello della rabbia e del senso di rivolta, frutto della memoria delle mobilitazioni durante la dittatura di destra, represse brutalmente e che non hanno portato a cambiamenti sufficientemente radicali in campo economico e sociale, lasciando tra le altre cose impuniti i responsabili di decenni di torture, repressioni e stragi. Oggi questa memoria collettiva trova espressione nel cinema soprattutto attraverso i sentimenti di rabbia nei confronti dei personaggi che impersonano l’autorità costituita, in particolare i manager e proprietari dei chaebol, cioè i grandi gruppi aziendali controllati da un’oligarchia di potenti clan familiari che dominano l’economia e la politica del paese, anche attraverso la corruzione. Si tratta di una struttura di capitalismo oligarchico nata durante la dittatura e che è sopravvissuta alla sua caduta. Infine, un altro elemento che la tragica storia della Corea, e in particolare la guerra e l’uso della tortura, hanno lasciato in eredità al cinema locale è quello della rappresentazione esplicita della violenza. Il pathos e le forti emozioni tipiche del melodramma, la smascolinazione, il senso di rabbia e la violenza sono temi presenti nel cinema d’autore coreano più noto a livello internazionale, basti citare tra tutti il nome del regista Park Chan-wook. Qui andiamo invece ad analizzare come tali temi oggi continuino ad affiorare prepotentemente nel cosiddetto cinema popolare, prendendo in esame sei film più o meno recenti che si rivolgono a un pubblico di massa, alcuni dei quali sono diventati veri e propri hit.

**Attenzione: il testo che segue contiene spoiler**

Due action “di classe” (“Train to Busan” e “Veteran”)

Cominciamo il nostro viaggio dal più recente di tali film, “Train to Busan” (“Busanhaeng”, 2016, diretto da Yeon Sang-ho), un film di zombie uscito l’estate scorsa con enorme successo di pubblico non solo in Corea (12 milioni di biglietti venduti), ma anche in altri paesi della regione. Recentemente è stato trasmesso in prima serata dall’emittente italiana Rete 4, un caso più unico che raro per un film coreano. In seguito a una fuga verificatasi in un impianto si diffonde nella Corea del Sud un morbo che colpisce in un primo momento alcuni animali per poi diffondersi agli umani, trasformandoli in zombie assetati di sangue il cui morso propaga ulteriormente il contagio con una crescita esponenziale e rapidissima. Il protagonista principale, il broker finanziario Seok-woo, vive a Seul, dove ancora non si è al corrente del diffondersi dell’epidemia scoppiata in un’altra area del paese, sebbene ve ne siano i primi sintomi. Una sera Seok-woo decide di portare la figlia, una bambina di nome Su-an, in visita dalla madre da cui è divorziato e che vive nella città di Busan, all’estremo sud-est della Corea. Sul treno sul quale salgono per recarsi a Busan riesce però a salire all’ultimo secondo una zombie che, dopo la partenza, trasmette il morbo al suo interno. L’intero film si svolge sul treno in viaggio e segue le vicissitudini di alcuni personaggi che, spostandosi da uno scompartimento all’altro e, alla fine, dal treno a una motrice abbandonata in una stazione di transito, cercano di mettersi in salvo dai sempre più numerosi e assetati zombie. Durante il viaggio diventa chiaro che ormai l’intera Corea è devastata dal morbo e in rovina, il governo è stato incapace di arginare la situazione e solo la città di Busan è riuscita a mettersi in salvo isolandosi dal resto del paese. Alla fine, solo due personaggi femminili riescono a salvarsi arrivando nella città ancora “libera”.

train to busan

“Train to Busan” in realtà più che un film di zombie è un action, e da questo punto di vista è ben congegnato perché non dà un attimo di tregua allo spettatore, riservandogli anche qualche sorpresa. Il genere horror/action si fonde in questa opera con momenti intensamente melodrammatici nei quali i personaggi esprimono con forte intesità le loro emozioni. Gli zombie, più che suscitare orrore (in alcuni momenti vengono dipinti in maniera volutamente grottesca) servono a creare una minaccia onnipresente. Non sembrano lasciare spazio a interpretazioni simboliche che vadano al di là di uno stato generale di crisi sistemica per l’intera società e del ritorno di fantasmi del passato. Anche se il percorso del treno da Seul a Busan (cioè dal nord-ovest del paese fino al suo estremo sud-est) ricalca quello della travolgente avanzata dell’esercito della Corea del Nord durante la prima fase della guerra di Corea degli anni cinquanta, avanzata fermatasi per l’appunto di fronte a Busan, non vi sono altri elementi nel film che rimandino al tema della minaccia comunista o comunque proveniente dall’esterno. D’altronde, il morbo si è sprigionato da un impianto nella Corea del Sud, non proviene da fuori il paese. Quello che invece “Train to Busan” mette sicuramente in scena, seppure non in modo esplicito, è una interessante rappresentazione dei rapporti di classe, riproponendo attraverso di essa alcuni dei temi traumatici della storia coreana che abbiamo elencato sopra. I personaggi centrali sono tre. Il già citato broker Seok-woo, con il quale lo spettatore è chiamato a immedesimarsi, rappresenta nell’ambito della narrazione la cosiddetta classe media, sebbene in realtà sia un manager che conduce una vita molto agiata e quindi faccia parte di una piccola minoranza privilegiata. Nel cinema popolare di tutto il mondo è la norma che la “classe media” venga rappresentata da personaggi con un livello di redditi in realtà molto superiori alla media: si tratta di una modalità che consente al pubblico popolare di identificarsi con una figura non troppo distante dalla propria situazione, visto che tali personaggi occupano formalmente una posizione sociale “a metà” tra la classe lavoratrice e quella capitalista, e al contempo di sognare attraverso di essi una vita agiata e libera da costrizioni materiali. La narrazione di “Train to Busan” rafforza l’idea di questa posizione mediana del broker ponendolo esattamente a metà strada, in termini sociali, tra gli altri due personaggi centrali, cioè un rappresentante della classe lavoratrice, il muscoloso e altruista Sang-hwa, e il CEO di una grande azienda, il perfido ed egoista Yon-suk. Il broker Seok-woo è un personaggio inizialmente debole: il suo matrimonio è fallito, non è capace di dedicarsi sufficientemente alla figlia e nella prima parte del film persegue esclusivamente il fine egoistico di salvare sé e la figlia dagli zombie a scapito degli altri (per esempio lasciando chiuso in uno scompartimento pieno di zombie il lavoratore Sang-hwa e sua moglie incinta). Saranno solo le critiche che gli rivolge la figlia Su-an a portarlo a trasformarsi in un eroe altruista che collabora con Sang-hwa per salvare il maggior numero di vite possibile. Alla fine però viene morso anche lui e, poco prima di trasformarsi definitivamente in uno zombie, si suicida in una scena ad alta intensità melodrammatica. Il film lo mette così inaspettatamente fuori gioco poco prima della conclusione. Sang-hwa, il lavoratore, è invece fin dall’inizio altruista, coraggioso e dotato di una forza fisica impressionante. Inizialmente diffida di Seok-woo (saputo che è un broker finanziario lo definisce un “succhiasangue”, mettendolo così in diretta relazione con gli zombie), ma dopo essere entrati inizialmente in conflitto i due cominciano a collaborare nel tentativo di uscire dalla situazione. Svolta la sua funzione narrativa iniziale, il lavoratore si sacrifica andando coscientemente incontro alla morte e alla “zombizzazione” per cercare di salvare i passeggeri sopravvissuti. Il CEO Yon-suk, già avanti con l’età, è invece odiosamente egoista dal primo all’ultimo istante. In più è anche stupido perché, dopo avere causato numerose morti indebolendo così il gruppo di coloro che si sono uniti per salvarsi dagli zombie (per esempio butta un liceale in pasto agli zombie per salvare se stesso), non riesce a farla franca e diventa anche lui uno zombie. E’ facile individuare in Yon-suk un simbolo dei chaebol, i grandi gruppi industriali che costituiscono l’ossatura del capitalismo oligarchico della Corea del Sud. Intorno a queste tre figure centrali ruotano altri personaggi collaterali a forte valenza simbolica e direttamente ricollegabili a soggetti sociali. Il gruppo di liceali, che incontreranno tutti la morte (il più attivo di loro, come abbiamo visto, per colpa del perfido Yon-suk), rimanda al tema dei giovani sempre più sacrificati dall’economia in crisi del paese e sempre più privi di un futuro. C’è anche un senzatetto malato, anch’egli buono e altruista come Sang-hwa, che raffigura la povertà e la marginalità sociale, e ci sono due anziane sorelle pensionate, che incontreranno anch’esse la morte in un parallelo non casuale con la morte dei giovani liceali. C’è poi un altro rappresentante della classe lavoratrice: il macchinista del treno, grazie ai cui nervi saldi e compassato coraggio (nonché volontà di sacrificio: diventa anche lui uno zombie appena dopo avere svolto la sua funzione narrativa), le due uniche superstiti riescono ad arrivare a Busan ancora libera da zombie. Il fatto che alla fine a salvarsi siano solo due protagoniste di sesso femminile, cioè la moglie incinta del lavoratore Sang-hwa e la piccola Su-an, figlia del broker, non ha nulla di femminista. Se ci sono arrivate sane e salve è solo per il sacrificio rispettivamente del marito e del padre, non per le proprie capacità. Entrambe sono figure passive che svolgono esclusivamente la funzione di “riproduttrici della famiglia”: la prima perché incinta, la seconda come figlia ancora bambina del broker.

Il film pertanto è incentrato su un personaggio “smascolinato”, cioè il broker Seok-woo, che recupera infine parte della propria mascolinità, ma solo perché spronato dalla figlia e distruggendo alla fine se stesso senza riuscire a salvarsi e a perpetrare così il proprio ruolo di padre (la figlia, si suppone, verrà allevata dalla madre che vive a Busan). La figura del “padre smascolinato” come vedremo, ricorre costantemente nel cinema popolare coreano odierno, così come d’altronde avveniva anche in passato. Il successo di massa che ha ottenuto il film è probabilmente dovuto, oltre che all’efficace ritmo da film action, anche all’allegoria della lotta di classe che mette in scena in modo più o meno indiretto – un’allegoria che consente allo spettatore di immergersi in tale conflitto, fino a uno scioglimento finale che è (ma solo in parte) rassicurante. Come abbiamo già notato, la figura del broker Seok-woo consente allo spettatore un’identificazione di tipo utopico e dinamico, in quanto modello di possibile riscatto e di ascesa sociale. La sua trasformazione da soggetto debole ed egoista a eroe attivo e altruista permette di “sognare” un proprio analogo riscatto eroico, anche se poi in ultimo Seok-woo morendo tradisce il pubblico che si era immedesimato con lui, spostando gli umori del film in direzione del melodramma. Il lavoratore Sang-hwa è univocamente buono e forte, e come tale richiama anch’esso un’identificazione dello spettatore, ma la narrativa ne fa un personaggio di secondo piano rispetto a Seok-woo, visto tra l’altro che muore poco dopo la metà del film. Il CEO Yon-suk è il personaggio meno problematico di tutti: è il bersaglio abietto contro il quale deve concentrarsi la rabbia degli spettatori – non è l’origine del male (che non viene chiarita), ma è colui che rischia di fare scomparire, con il suo irresponsabile egoismo, il microcosmo sociale rappresentato nel film. Nella sostanza il film raffigura un’alleanza tra la classe lavoratrice e quella media (Sang-hwa e Seok-woo, rispettivamente), in contrapposizione ai capitalisti (il CEO Yon-suk), per salvare la collettività (il microcosmo costituito da tutti i personaggi) dal rischio di un totale collasso sociale (l’epidemia degli zombie). Solo che questa alleanza, da una parte, e questa contrapposizione, dall’altra, alla fine si dissolvono con la morte di tutti e tre i personaggi principali senza che si sia giunti a una soluzione. Il film, dopo avere messo in moto nello spettatore molteplici “sentimenti di classe”, evita di raffigurare la vittoria di uno dei due fronti sublimando il conflitto in una vaga, quanto patriarcale e familistica, chiusura. Ciò non toglie che “Train to Busan” nella sua chiusura contenga elementi che causano inquietudine, più che pace di spirito, nello spettatore, vale a dire la tragica morte dell’eroe principale e la devastazione totale del paese che rimane in mano agli zombie, con l’unica incerta eccezione della città di Busan, la cui situazione però non viene raffigurata. Il film non è certo riducibile ai soli temi della lotta di classe, della paternità smascolinata e del senso di precarietà generale della Corea di oggi, che tuttavia vi svolgono un ruolo centrale. E che siano una chiave interpretativa importante lo conferma il fatto che, in un modo o nell’altro, singolarmente o nel loro insieme, gli stessi temi ricorrono in svariati film coreani di grande successo degli ultimi anni.

Veteran(locandina di “Veteran”)

In un altro dei maggiori hit recenti del cinema sud-coreano, il thriller “Veteran” (“Beterang”, 2015, regia di Ryoo Seung-wan), i temi del conflitto di classe, del padre smascolinato e del ruolo opprimente dei chaebol compaiono in modo ancora più esplicito. Il film, che ha avuto anch’esso 12 milioni di spettatori, segue le vicende di Seo Do-cheal, un poliziotto violento e poco rispettoso delle regole che indaga privatamente sugli strani eventi che hanno portato l’amico Bae a ritrovarsi in coma profondo all’ospedale. Bae è un camionista onesto di umili condizioni alle dipendenze di una ditta che a sua volta lavora in appalto per un chaebol il cui futuro erede è Jo Tae-oh, un giovane crudele e senza scrupoli. Dopo avere organizzato un presidio di fronte alla sede del chaebol del clan familiare di Jo per avere gli stipendi arretrati di cui non riesce a ottenere il pagamento, Bae viene trovato in fin di vita, secondo la versione ufficiale a causa di un tentato suicidio. Il poliziotto Seo non è convinto di questa versione e conducendo un’indagine alla quale si frappongono innumerevoli ostacoli, non ultimo il fatto che Jo, in quanto rampollo di una famiglia di capitalisti, è un intoccabile, alla fine riesce a scoprire che in realtà il camionista Bae è in coma per le conseguenze di un brutale pestaggio da parte di Jo, irritato dalla protesta che aveva organizzato di fronte alla sede dell’azienda. Il film si chiude con il movimentato arresto di Jo. Come “Train to Busan”, anche “Veteran” è un film altamente spettacolare, giocato sul filo delle indagini serrate, degli inseguimenti, delle risse e di tutti gli altri elementi classici del genere. Il conflitto di classe è anche qui centrale e si evidenzia nel rapporto tra Bae, lavoratore dipendente precario, e il corrotto milionario Jo. L’intero film fa leva su sentimenti di rabbia e rivolta nei confronti dei capitalisti spietati e oppressori. Questi sentimenti vengono tuttavia allo stesso tempo neutralizzati dal fatto che a lottare contro di loro è un tutore dell’ordine “socialmente neutro” (per renderlo però più simpatico e accettabile per gli spettatori il poliziotto viene ritratto come poco ortodosso e in conflitto con i superiori) e che il personaggio che impersona i chaebol, Jo, è a tale punto ignobile e capriccioso da fare implicitamente pensare che il suo sia un caso atipico e puramente personale. A differenza che in “Train to Busan”, poi, il personaggio che raffigura la classe lavoratrice, cioè Bae, è una figura univocamene impotente e perdente. La scena centrale del film, altamente melodrammatica e accompagnata da una solenne aria d’opera, è quella in cui il perfido Jo umilia il camionista Bae insultandolo e picchiandolo brutalmente, fino a ridurlo in coma, di fronte agli occhi del figlio bambino. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a una figura di padre smascolinato, ma in modo molto più forte e univoco che in “Train to Busan”. Lo scioglimento della narrazione è pacificatore perché viene fatta sì giustizia, ma limitando la punizione al singolo Jo e a un suo aiutante, senza che nulla cambi (il camionista, si presume, tornerà alla propria vita povera e precaria, mentre il sistema dei chaebol rimarrà intatto). Va comunque sottolineato che la scelta di utilizzare toni fortemente melodrammatici nel rappresentare la vicenda di Bae amplifica nello spettatore l’immedesimazione con la situazione di profonda ingiustizia della quale è vittima, generando un senso di rivolta nel pubblico e spingendolo indirettamente a porsi domande sulla propria situazione nella Corea del Sud di oggi.

Stragi, vendette e nuove generazioni (“May 18” e “26 years”)

Come abbiamo visto, uno dei traumi della storia sud-coreana è quello della dittatura impunita e delle sue stragi, in particolare quella di Gwangju del maggio 1980 già ricordata sopra (le stime vanno da 700 a 2.000 civili uccisi), il cui principale responsabile è Chun Doo-hwan, il dittatore salito al potere dopo il suo predecessore Park Chung-hee era stato ucciso in una congiura di palazzo nel 1979. Il film che ha ottenuto più successo di pubblico (7 milioni di biglietti venduti) tra i non molti che affrontano il tema del massacro è “May 18” (“Hwa-ryeo-han-hyoo-ga”, 2007, diretto da Kim Ji-hoon).

May 18

La trama segue in modo approssimativo gli eventi reali che hanno portato alla strage, prendendosi molte libertà nel ricostruire i fatti. Viene descritta la rivolta degli studenti della città, repressa dalle forze dell’ordine della dittatura con una violenza tale da causare l’insurrezione dell’intera Gwangju, che è riuscita poi a liberarsi autogovernandosi per alcuni giorni fino all’intervento dei militari e alla riconquista del controllo della città da parte degli stessi mediante una strage orrenda. La chiave interpretativa di fondo scelta dal regista e dai produttori è melodrammatica e durante i tragici eventi descritti dal film tutti i protagonisti si abbandonano più volte al pianto. “May 18” è incentrato sulla figura di due fratelli, Min-woo e Jin-woo, entrambi di modeste condizioni, il primo taxista e il secondo ancora studente. Min-woo è innamorato dell’infermiera Shin-ae, ma è troppo timido per farle la corte apertamente e utilizza il fratello come schermo per avvicinarsi a lei indirettamente. Nel corso degli eventi Jin-woo viene ucciso dalle prime repressioni della polizia e ciò provoca una maturazione politica di Min-woo, che diventa uno degli insorti più attivi insieme a Park Heung-su, padre dell’infermiera Shin-ae ed ex generale dell’esercito mandato anticipatamente in pensione perché critico nei confronti dell’autoritarismo dei militari. Park Heung-su diventa l’organizzatore della resistenza durante i giorni dell’autogestione popolare e Min-woo al suo fianco riesce infine a conquistarsi l’amore, seppure non esplicitato, della giovane Shin-ae poco prima di morire sotto il fuoco dei militari dopo avere combattuto al fianco dell’ex generale, anch’egli destinato alla morte. In questo film, a differenza di quelli presi in esame sopra, non sono descritti conflitti di classe, né vengono presi di mira i chaebol. Viene descritta solo una rivolta di popolo contro la dittatura fascista del generale Chun Doo-wan e proprio per sottolineare la coralità di questa rivolta i personaggi principali sono solo genericamente di umili origini, senza precise distinzioni di classe. “May 18” punta tutto sulla descrizione con toni fortemente melodrammatici della violenza estrema esercitata dai militari contro le loro vittime, con lo scopo evidente di commuovere lo spettatore e suscitare nello stesso un senso di rivolta verso l’ingiustizia e l’oppressione. Ma questo effetto è controbilanciato da una figura paterna centrale, l’ex generale Park Heung-su, il cui ruolo di padre simbolico è reso più forte dal fatto che le altre due figure centrali, i fratelli Min-woo e Jin-woo, simbolo della rivolta giovanile, sono orfani. A sottolineare questa sua funzione paterna, durante l’ultima loro conversazione prima di morire entrambi, l’ex generale si rivolge a Min-woo chiamandolo “figlio”. Park Heung-su rappresenta qui l’ordine che pone freno al caos spontaneo della rivolta, grazie alla sua esperienza acquisita all’interno delle istituzioni militari. Si può quindi dire, semplificando un po’ la complessità della narrazione, che rappresenta l’opzione riformista e moderata rispetto a quella rivoluzionaria del popolo. Park Heung-su non è però una figura di padre impotente e smascolinato, come nei primi due film passati qui in rassegna, e ha invece chiare doti di leader, sottolineate dai campi e controcampi in cui arringa dall’alto una folla che lo guarda ammirata dal basso. Alla fine però sia il “padre” che il “figlio” escono da questo film con una piena sconfitta nella loro lotta contro un nemico, i militari, che dispiega con maggiore efficacia la propria “mascolinità”.

26 Years

(locandina di “26 Years”)

Vi è un altro film coreano di successo che si basa sul tema della strage di Gwangjon e della dittatura del generale Chun Doo-hwan, affrontandolo però da un’angolatura ben diversa. Si tratta di “26 years” (“26 nyeon”, 2012, diretto da Jo Geun-hyeon), che sceglie le modalità dell’action partendo da premesse narrative molto originali, ma perdendosi in un finale confuso e ancora una volta incentrato sulla figura di un padre impotente. Il film è ambientato nel 2006, anno in cui, come d’altronde ancora oggi nella realtà, il maggiore responsabile della strage di Gwangjun, l’ex dittatore Chun Doo-hwan, vive tranquillamente nella capitale Seul in una lussuosa villa iperprotetta dalla polizia. Dopo la caduta della dittatura Chun era stato processato e condannato a morte, ma poi ha ottenuto la grazia in nome della “riconciliazione” ed è tornato in piena libertà. L’ex generale è frequente ospite di talk-show in cui difende la propria posizione e minimizza i crimini della sua dittatura. L’intero “26 years” è incentrato sulla rabbia contro la sua sfacciata impunità. Il film si apre con un’originale combinazione di immagini: le prime convulse riprese che danno immediatamente un tono “action” sono seguite da alcuni minuti di suggestive e drammatiche sequenze animate che ricostruiscono la strage di Gwangju. Vengono poi mostrate le reazioni di rabbia o addirittura isteriche di alcuni sopravvissuti di fronte alle comparse di Chun in televisione negli anni ottanta come presidente, nel 1997 quando ottiene la grazia e infine nell’oggi filmico del 2006. Queste sequenze iniziali introducono la storia di tre giovani, un poliziotto alle prime armi, una campionessa di tiro a segno e un gangster di basso grado della mafia di Seul, tutti e tre figli di sopravvissuti di Gwangju che sono rimasti segnati indelebilmente dalla strage per avervi perso parenti prossimi. L’attempato CEO di una società che fornisce guardie del corpo e il suo segretario propongono ai tre giovani di organizzare l’uccisione di Chun Doo-wan, proposta che i tre accolgono con entusiasmo. Se in principio i motivi dell’iniziativa del CEO sono oscuri, nel corso del film si scoprirà che il CEO è un ex soldato semplice che nel 1980 è stato costretto contro la sua volontà a partecipare alla strage di Gwangju e vuole per questo vendicarsi nei confronti dei suoi superiori, mentre il segretario è in realtà suo figlio adottivo, che da bambino era rimasto orfano di un uomo e una donna uccisi a Gwangju nel 1980. “26 years” descrive gli innumerevoli e spettacolari tentativi da parte dei tre giovani di uccidere l’ex dittatore e da questo punto di vista funziona molto bene, perdendo però efficacia nella parte conclusiva, che si protrae troppo a lungo. Un aspetto sicuramente notevole di questa opera cinematografica consiste nel fatto che non solo ritrae i tentativi di uccidere una persona ancora in vita nella realtà e protetta dallo stato, ma che suona anche come un’istigazione a compiere una tale vendetta. Questo effetto istigatore viene reso ancora più incisivo dalla quasi perfetta somiglianza tra il Chun filmico (interpretato con straordinaria efficacia da Gwang Jang) e quello reale. Alla fine però il film ha una doppia anima: efficace quando sceglie senza mezzi termini di puntare sulla necessità di punire Chun, sottolineando la rabbia nei suoi confronti e la ferma intenzione dei protagonisti di ottenere giustizia con scene d’azione molto ben congegnate, debole e consolatorio quando pone l’accento sul ruolo del CEO e di suo figlio. Anche in questo caso abbiamo una figura paterna impotente (il CEO non riesce a uccidere l’ex dittatore quando gli si trova di fronte a pochi metri di distanza e viene poi ucciso insieme al figlio adottivo), ma che serve da figura di compromesso e di contenimento dei tre giovani protagonisti. La sua presenza nella narrazione ha infatti l’effetto di depotenziare la carica eversiva di questi ultimi: è un dirigente d’azienda e nei fatti fa parte del sistema (la sua alleanza con i tre giovani rimanda quindi a un’idea di pacificazione generazionale e di classe), è lui a guidare i tentativi di uccidere Chun e a dirigere i tre aspiranti killer, inoltre è avanti negli anni e con il suo ruolo paterno garantisce il loro contenimento nell’ambito della tradizione e dell’ordine familiare. Se il film avesse scelto di narrare la stessa storia, ma limitandosi a descrivere tre giovani che si organizzano autonomamente, sarebbe stato letteralmente esplosivo. E’ comunque significativo che un film così incentrato sulla rabbia dei giovani contro un passato opprimente e mai morto abbia ottenuto un notevole successo: “26 years” ha avuto oltre 3 milioni di spettatori, pur non avendo potuto contare su un alto budget di produzione ed essendo stato prodotto in parte con un’iniziativa di crowdfunding.

Il precario si ribella (“Office” e “Cart”)

Office

(locandina di “Office”)

Il thriller con venature horror “Office” (“Opiseu”, 2015, regia di Hong Won-chan) racconta la storia della misteriosa scomparsa del dipendente di una società di marketing di Seul, Byeong-gook, dopo che lo stesso ha sterminato apparentemente senza motivo la propria famiglia. La polizia interroga i suoi colleghi per cercare di scoprire i motivi della strage e il luogo in cui Byeong-gook si nasconde. Nessuno sa spiegarsi il perché del suo atto e solo verso la fine del film si scoprirà che ha agito in preda alla depressione dopo essere stato licenziato sui due piedi dai suoi dirigenti, che però hanno nascosto questo fatto durante gli interrogatori della polizia. Molti elementi lasciano pensare che l’omicida sia nascosto nell’edificio della società di marketing o che addirittura sia morto e si aggiri nello stesso come fantasma. Nell’ufficio in cui Byeong-gook lavorava è impegnata da mesi come stagista una giovane, Mi-rye, che guarda a caso si è trasferita nella capitale alla ricerca di un lavoro proprio da Gwangju, la città della strage del 1980. Mi-rye, che proviene da una famiglia povera, non solo ha una posizione precaria e riceve una retribuzione misera, ma è anche oggetto dei continui crudeli soprusi di tutta la gerarchia alla quale è sottoposta e di cui rappresenta l’ultimo gradino. Come se non bastasse, l’agognata assunzione definitiva alla fine dello stage le viene soffiata all’ultimo momento da un’altra stagista di famiglia ricca che ha studiato in costose università estere. Nel frattempo nell’ufficio si verificano alcuni efferati omicidi di dipendenti e dirigenti di medio livello e tutti pensano che siano opera di Byeong-gook o del suo fantasma. In chiusura però emerge che gli omicidi sono opera della giovane Mi-rye, che era legata da sentimenti di amicizia verso Byeong-gook e che nella sua mente ormai instabile ha cominciato a identificarsi con lui, un’identificazione rafforzatasi dopo che è venuta a sapere che anche lei sarebbe stata presto licenziata. Mi-rye riesce però a scampare alla giustizia: la polizia la sorprende qualche secondo dopo che ha terminato il suo ultimo omicidio di un collega, ma per una serie di coincidenze agli agenti la situazione appare come frutto di una legittima difesa della giovane contro la furia omicida dell’uomo. Poiché mancano altre prove, e dato che nel frattempo è stato rinvenuto il corpo in decomposizione di Byeong-gook che si è suicidato subito dopo avere sterminato la famiglia, il collega ormai morto viene ritenuto l’autore anche degli altri omicidi e Mi-rye non viene arrestata. In questo film sono presenti in un modo o nell’altro tutti i temi narrativi ricorsi finora: la figura del padre smascolinato, la lotta di classe (indirettamente rappresentata dalla figura della stagista povera e precaria e dal suo ribellarsi contro un sistema aziendale gerarchico e oppressivo), la precarietà, la strage di Gwangju, la vendetta violenta. “Office” si apre con le immagini di Byeong-goo che uccide a martellate la famiglia, ivi compreso il figlio ancora bambino. Il personaggio di Byeong-goo è quello di un uomo fondamentalmente buono e giusto, che però non è riuscito a ribellarsi ai soprusi e al licenziamento e trascina così nella sua mortale impotenza l’intera famiglia facendone strage. Ancora una volta, quindi, viene raffigurata una figura centrale di padre impotente che va incontro alla morte. “Office” descrive molto crudamente l’oppressività del sistema di comando aziendale sud-coreano, il modo in cui i dipendenti vengono messi gli uni contro gli altri per garantire la riproduzione del sistema gerarchico, le divisioni di classe, la fatica legata agli straordinari e ai tempi di lavoro inumani. L’esito è diverso da quello dei film che abbiamo visto sopra, perché qui è una donna a ottenere a suo modo giustizia, ma va sottolineato che da un certo punto di vista si limita a “portare avanti” l’opera omicida avviata dal suo collega maschio scomparso. Il film però combina tutti questi elementi in modo confuso. Mi-rye alla fine ha sì successo e scampa all’incriminazione, ma nel frattempo è diventata un personaggio odioso a causa dell’efferatezza dei suoi crimini. Anche a livello strettamente di sceneggiatura nella parte finale la vicenda stenta a reggere e in generale i personaggi sono perlopiù delle semplici macchiette. Nonostante i temi che mette in gioco siano tra gli elementi alla base del successo degli altri film qui analizzati, “Office” ha registrato un numero di spettatori relativamente basso per gli standard sud-coreani (circa 400.000), con ogni probabilità proprio per il modo confuso in cui li affronta e per avere reso in chiusura odiosa la protagonista con la quale il pubblico è stato inizialmente chiamato a identificarsi.

Cart

(locandina di “Cart”)

L’ultimo film di cui ci occupiamo è un film al femminile. “Cart” (“Ka-teu”, 2014, regia di Boo Ji-young) tratta temi come il precariato e la lotta per il posto di lavoro, ed è stato prodotto da una piccola casa indipendente con un budget molto limitato, sia in termini di produzione che in termini di promozione. Nonostante queste coordinate, ha ottenuto un notevole successo grazie soprattutto al passaparola degli spettatori (quasi 1 milione di biglietti venduti, un traguardo che pochi film di questo tipo riescono a raggiungere). Nel mese della sua uscita, il novembre del 2014, è stato il film più visto in Corea del Sud, sorpassando svariate produzioni ad alto budget. Questo successo è dovuto probabilmente al fatto che “Cart” riesce a coniugare temi impegnati (ma che fanno parte della realtà di tutti i giorni), con un formato popolare accessibile a un vasto pubblico. Il film narra le vicende di un gruppo di donne che lavorano con contratti di lavoro temporaneo o part-time come cassiere o addette alla pulizia nel supermercato di una grande catena di distribuzione a Seul. Nello stesso punto di vendita lavorano anche uomini, ma a differenza delle donne hanno contratti a tempo indeterminato e occupano posizioni di medio livello. Le lavoratrici vengono all’improvviso a sapere che verranno presto “vendute” a una società in outsourcing e che la maggior parte di loro perderà il posto di lavoro. Inizia una lunga serie di lotte autorganizzate con scioperi bianchi, la creazione di un sindacato, l’occupazione del supermercato e, dopo un intervento della polizia per sgomberarle, un presidio permanente di fronte allo stesso. I padroni, oltre che sugli interventi della polizia e di una “security” privata molto simile a un gruppo di gangster, puntano sulla tattica di mettere in conflitto tra di loro i dipendenti. Riescono nel loro obiettivo creando un fossato tra lavoratori e lavoratrici, ma non tra le fila di queste ultime, tra le quali, nonostante reiterate tensioni, alla fine prevale l’unità. Solo un giovane dipendente si unisce, sebbene tardivamente, alle iniziative delle donne diventandone il principale animatore, ma viene presto arrestato. Le lavoratrici, che vengono infine licenziate, non si danno per vinte e organizzano un flash-mob nel supermercato, ma di nuovo intervengono con violenza polizia e security. Il film si chiude con le immagini delle ex dipendenti che, spingendo dei carrelli, si scagliano contro un cordone di polizia schieratosi a protezione del supermercato: la lotta prosegue. “Cart” si ispira liberamente a eventi reali, cioè allo sciopero organizzato dalle lavoratrici della catena sud-coreana E.Land a partire dal 2007 e durato più di 500 giorni. E infatti è un film in chiave apertamente realistica, sebbene includa svariati momenti di tono melodrammatico. Vi è anche la sottotrama del difficile rapporto tra la dipendente che svolge un ruolo centrale nel film, Sun-hee, e il figlio liceale, innamorato di una propria coetanea e che comincia di nascosto a lavorare di notte come commesso in un piccolo negozio a conduzione familiare per potere partecipare alla gita scolastica di fine anno, che la madre non è in grado di pagargli.

Il film descrive con efficacia la maturazione che porta le lavoratrici ad autorganizzarsi e i momenti di gioia nel ritrovarsi a lottare insieme. “Cart”, nel complesso, invia il messaggio che ribellarsi non solo è giusto ma, sebbene comporti rischi drammatici, può essere anche bello, senz’altro più bello che chinare la testa. Viene descritto fin dall’inizio con efficacia il sessismo che ancora regna nella Corea del Sud: il film si apre sulle immagini di un dirigente (ovviamente maschio) del supermercato che, prima dell’apertura, arringa da un podio i dipendenti schierati di fronte a lui in formazione di plotone militare, con le donne al centro strette sui tre rimanenti lati da file di dipendenti uomini. Nel film è presente anche il tema delle repressioni violente della polizia, descritte senza eccessi ma in modo esplicito e che in chiusura avvengono in diretta collaborazione con la security aziendale: “Cart” denuncia così il fatto reale che la polizia in Corea del Sud difende in modo plateale i padroni contro i lavoratori e i cittadini in genere. Inoltre, l’intervento di reparti antisommossa per un semplice e pacifico sciopero in un supermercato (intervento non irrealistico nella Seul di oggi) ricorda i metodi sproporzionatamente violenti utilizzati dalla dittatura, con un riferimento indiretto a Gwangju. Come nella maggior parte dei film analizzati sopra, anche qui è forte il motivo della rabbia contro i padroni, che però in questo caso non sono i chaebol, ma una grande azienda molto più simile a quelle presenti ovunque nel mondo. Va notato che “Cart” non presenta alcuna dicotomia tra “grande azienda” cattiva e “piccola azienda” buona, anzi, il figlio di Sun-hee che lavora per un piccolo negozio viene trattato in modo uguale a quello con il quale la catena di supermercati tratta la madre: il padrone non gli paga per intero lo stipendio e per giunta lo picchia brutalmente. In “Cart” rabbia, senso di precarietà e lotta di classe non sono temi sotterranei o solo accennati, come per esempio in “Train to Busan” o “Veteran”, ma espliciti e centrali. E a differenza che negli altri film trattati sopra, la figura paterna è pressoché assente: Sun-hee è sposata, ma il marito fa il marinaio e non torna quasi mai a casa (nel film non lo si vede) né fa avere soldi per mantenere i figli, la collega che più le è vicina è una madre single. I mariti o compagni delle altre lavoratrici sono praticamente invisibili. Quando il figlio di Sun-hee accetta con rassegnazione di non ricevere dal suo padrone l’intero stipendio dovutogli, è la sua ragazza a reagire  infrangendo la vetrina del negozio con una pietra. Ed è sua madre, con una grinta inflessibile, a salvarlo dal rischio di finire in prigione. Va osservato che a un certo punto, in termini di sessismo e rapporti uomini-donne, “Cart” sembra vacillare quando a metà film l’unico maschio che si è unito alle lotte, Dong-joon, ne diventa il leader. In realtà però Dong-joon non ha nulla di una figura paterna e, considerata la sua età molto giovane nonché i modi timidi, appare più come un “figlio adottivo” delle lavoratrici che come un padre. Inoltre, a differenza di loro, ben presto perde l’autocontrollo e cede alle provocazioni di un dirigente aggredendolo. Per questo motivo viene arrestato e quindi estromesso dalla narrazione: alla fine le lavoratrici tornano ad autorganizzarsi con un’autonomia totalmente al femminile. Grazie anche alla scelta di un tema del presente reale e alla maggiore libertà creativa consentita dal fatto di essere una miniproduzione, “Cart” riesce a dare sfogo ai traumi storici e sociali in maniera molto più esplicita rispetto ai film presi in esame in precedenza. Rinunciando a ogni pretesa “artistica” e alla dimensione autoriale, così come a ogni tono didattico, è riuscito con successo a proporsi come prodotto popolare, in sintonia con il tema che tratta.

Un cinema con radici che affondano nel passato, ma in sintonia con l’oggi

In questo articolo abbiamo selezionato solo alcuni casi esemplari di una produzione cinematografica popolare molto più ampia e variegata (nonostante abbia una popolazione inferiore a quella italiana, la Corea del Sud produce annualmente quasi il doppio dei film prodotti nel nostro paese). Non abbiamo per esempio trattato nessun film incentrato sul tema della divisione del paese tra Nord e Sud, uno dei filoni più frequentati dal cinema della Corea del Sud e che fa anch’esso riferimento a un trauma della storia nazionale, affrontato da opere cinematografiche di ogni genere, dal thriller, alla spy story fino alla commedia. A questo tema hanno dedicato un intero capitolo (pag. 135-160) Marco Dalla Gassa e Dario Tomasi nel loro ottimo libro “Il cinema dell’estremo oriente”, pubblicato da Utet nel 2010, al quale rimandiamo. Inoltre il nostro obiettivo era solo quello di mettere in luce alcuni temi ricorrenti nelle linee narrative dei film popolari. Non va dimenticato però che la linea narrativa è uno dei tanti elementi dell’opera cinematografica, nella quale le scelte estetiche (spaziali, ritmiche, sonore, cromatiche ecc.) hanno un pari peso. Infine, quando sottolineiamo che la linea narrativa di un film fa leva su determinati sentimenti dello spettatore o gli rappresenta determinate situazioni, non va dimenticato che lo spettatore implicito in un film (cioè quello presupposto dai suoi produttori) è diverso da quello reale e che quest’ultimo è un soggetto indipendente in grado di interpretare il film in autonomia facendo riferimento non solo a ciò che lo stesso gli rappresenta, ma anche alla propria esperienza personale e alla realtà sociale in cui è immerso. Fatte queste precisazioni, ci sembra evidente che i produttori del cinema popolare sud-coreano odierno siano “obbligati” a trattare determinati temi e a usare determinate strategie se vogliono sperare di fare presa sul pubblico. Tra queste strategie vi è quella del melodramma che, come abbiamo già ricordato, non è più da tempo il genere dominante del cinema sud-coreano, ma continua a vivere nell’ambito di altri generi non direttamente a esso contigui (per es. il thriller, l’horror o il cinema socialmente impegnato), nell’ambito di singole scene di rilevanza centrale o come tonalità di fondo dei film. Si tratta di una presenza che per i gusti dell’odierno pubblico europeo o statunitense (per fare solo due esempi) è difficilmente digeribile, come testimoniato dal fatto che testate rivolte agli operatori della distribuzione e della produzione, come Variety e Hollywood Reporter, quando recensiscono film coreani molto spesso segnalano che il loro pathos ridondante e l’eccesso di lacrime rendono difficile un successo di pubblico nei mercati occidentali. Questa “diversità” dei film coreani (ma anche di altri paesi dell’area) non è frutto di matrici culturali ancestrali e immutevoli, bensì dello specifico incrociarsi di dinamiche storiche, perlopiù recenti, come il colonialismo, la guerra, la dittatura, la divisione nazionale e il neoliberismo, che tuttavia non sono peculiari della Corea o dell’Estremo oriente. Così come la ricorrenza nel cinema coreano dello sfogo aperto e melodrammatico delle emozioni, spesso con un pianto aperto, porta a porsi domande sulle sue motivazioni, anche il prevalere nel cinema europeo e Usa odierno di strategie filmiche improntate all’ironia e/o al cinismo e/o al minimalismo, che a noi “occidentali” sembrano più accettabili e consone alla contemporaneità, dovrebbe portare in realtà ad analoghe riflessioni.

Quello della smascolinazione delle figure maschili è un tema lasciato in eredità al cinema coreano dal colonialismo, dalla guerra e dalla dittatura, ma non esprime necessariamente impotenza: molto spesso, visto il pathos con il quale tale smascolinazione viene ritratta e la condizione di vittime dei personaggi che la raffigurano, è allo stesso tempo espressione di innocenza e quindi di una virtù. Non a caso nel cinema coreano popolare contemporaneo la smascolinazione e i toni fortemente melodrammatici si incrociano molto spesso con la rabbia e il senso di rivolta, nonché con il motivo della lotta di classe, tutti elementi che rimandano non alla sconfitta e al ripiegamento su di sé, ma al cambiamento. Negli anni recenti la presenza di questi ultimi elementi è andata intensificandosi nel cinema sud-coreano. Non è un caso, riteniamo, che un film come “26 years”, alla base del quale c’è la rabbia contro l’impunità dei responsabili della dittatura e che chiama alla vendetta contro di loro, sia stato prodotto nel 2012, cioè appena un anno dopo l’elezione di Park Gyeun-he a presidente. La presidentessa deposta sull’onda di una rivolta popolare nel marzo 2017 è figlia del dittatore Park Chung-hee che ha governato la Corea del Sud dal 1961 al 1979, e con le sue politiche reazionarie ne ha resuscitato il fantasma. Negli anni settanta la giovane Park Gyeun-he svolgeva nelle cerimonie pubbliche addirittura il ruolo di first-lady, dopo che la madre era stata uccisa in un attentato. Le manifestazioni oceaniche e commosse con le quali milioni di coreani hanno provocato la sua caduta sono paragonabili a quelle del 1987 che hanno posto fine alla dittatura e confermano che i temi dell’innocenza, della rabbia, della lotta di classe e, perché no, del pathos melodrammatico, sono presenti e vivi non solo nelle sale cinematografiche, ma anche nelle piazze e nella società. Siamo quindi convinti che il cinema popolare coreano continuerà a riservarci interessanti sorprese.